01 Dicembre 2011

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Bruno Mancini 

Così fu

 PARTE 1

Così fu

Quarta puntata

 


 Così fu

Quarta puntata

Capitolo 11

Ieri.

Soltanto ieri sera alle 20 sono uscito frastornato dallo studio del Notaio Vittorio Tramontore con una chiave di ferro, che dovrò decidere se riconsegnargli, al massimo entro le 20 di domani, o trattenere assumendomi determinate responsabilità, e con «Una chiave, ideale, idonea a che si apra – lui ha detto – la corretta lettura per una parte ignota della sua vita: la parola “CAPIRE”.» «Una parte ignota della mia vita?» «Appunto».

Quindi, come ho accennato all’inizio, ho serrato le porte in attesa di muovermi verso i luoghi delle mie origini.

Metaforicamente, praticamente, completamente.

Prima di partire da Roma avevo prenotato l’alloggio presso un albergo di costruzione recente situato sullo sperone sporgente al confine tra la baia di Cartaromana ed il promontorio di Punta San Pancrazio.

Una scelta non casuale ma voluta per il desiderio di una notte serena, di silenzio assoluto infranto unicamente dalla risacca, dagli sbuffi dello scirocco lungo le pendici della collina ricoperta da ginestre (ginestra, fiore amato dalla mia donna) in piena fioritura, e da qualche sporadico monotono rimbalzare dei richiami che forse i grilli, forse le prime cicale, forse i gatti in amore, forse gli uccelli notturni, forse i roditori, avrebbero utilizzato per riconoscersi e difendersi.

Aspettando che mi fosse servita la cena al tavolo sulla terrazza a strapiombo sul mare, ho chiesto un gin tonic ed un sacchetto di anacardi, mi sono seduto nell’angolo meno illuminato, ho allungato le gambe poggiando i piedi tra i ghirigori formanti il disegno della ringhiera a pelo del baratro, ho socchiuso gli occhi, mi sono chiesto fino a che punto sarei stato in grado di ricordare, ricostruire, collegare, ed ho così iniziato il conto alla rovescia che avrebbe mutato il senso della mia vita portandomi, mediante una consapevole decisione, adesso a scriverne, ed in seguito ad indirizzarmi verso conclusioni difficili, ma ancora una volta coerenti con i sentimenti ai quali non ho mai inteso rinunziare.

Il primo pensiero conseguente è stato “Un solo gin tonic, venti anni fa, avrebbe rappresentato poco più di una goccia per la smoderatezza della mia ingordigia”: banale, pur risultando fondato su una indiscutibile verità.

Una certezza, senza dubbio, come il sapere che la cascina della quale avevo ricevuto la chiave dal Notaio sarebbe stata rasa al suolo, con il semplice gesto di chi prema il pulsante collegato ad una carica di dinamite, all’indomani della eventuale riconsegna che mi ero impegnato a non effettuare oltre quarantotto ore.

Una certezza, senza dubbio, come il sapere che avrei potuto impedirne la demolizione accettando di assumermi la responsabilità della sua conservazione nelle esatte attuali condizioni, interni compresi, e non esclusa alcuna parte dell’arredamento, suppellettili, ninnoli e cianfrusaglie inclusi.

Banale, come pensare che essa, la cascina, non avrebbe avuto fretta d’essere riscoperta da me, visto che ciò comportava la non peregrina e grave ipotesi della sua immediata distruzione.

Intanto, ricordandola come la vedevo tornando di corsa da scuola, ho rimuginato la dolorosa eventualità che un mio rifiuto sarebbe stato determinante a che fossero aggredite, da chi sa quale modernismo, anche le tante collaterali composizioni scenografiche pregne di affinità con i nostri, a volte, intensi individuali turbamenti.

Nostri, cioè miei e di Gilda, poiché gli altri, tutti gli altri con i quali ho convissuto la parte della mia vita che si è svolta all’interno della cascina – ponendo tra loro, in primo piano mia madre morta e mio fratello gemello mai più tornato da quando partì per combattere le ingiustizie del mondo – ormai li consideravo definitivamente collocati nel mio passato.

Ho finto di estraniarmi, mi sono proposto nella veste professionale di un analista, mi sono interrogato ed ho abbozzato alcune risposte incerte e non esaustive.

“Mi si chiede l’autorizzazione a demolire l’icona della nostra fanciullezza?

O forse, meno semplicisticamente, mi si induce ad agire, non solo al fine di convalidare l’irreversibile distruzione materiale dell’ultimo baluardo che tiene insieme squarci del nostro passato, ma infine perché io esprima l’accettazione alla cancellazione della visione idealizzata composta da tutto quanto rimane di ciò che ci unì?

Io, inflessibile iconoclasta, presumo che non dovrei avere remore a consentire che sia demolito il totem.

Io, irriducibile sentimentale, sono invece certo che scatenerò feroci conflitti tra il mio cervello e la mia anima se, insieme al nostro feticcio, dovrò eliminare anche le mie emozioni.

Purtroppo è così.

Già sento atroce il rimpianto ed un senso di colpa”.

Nel mio immaginario, la casa non aveva fretta d’essere riscoperta.

Anzi essa, pur avendo la precisa cognizione che prima o poi sarebbe stata aggredita da ogni moderna novità, continuava, discreta e dimessa, ad attendere, con serena rassegnazione i giorni a venire.

Ciò mi turbava nonostante l’evidente sofferenza causata dall’abbandono e dalla decadenza senza tempo di cui pativano parti importanti delle antiche opere effettuate per creare sì certo le forme estetiche del casolare,  ma che in seguito erano divenute essenziali affinché si coniugasse la totale radicazione della cascina in tutto il luogo nel suo complesso attraverso quei profondi processi di formazioni emozionali, anche sentimentali e patetici, che sarebbero con fluidezza sfociati nelle nostre, di Gilda e mie, complici intese.

Non dubitavo che il poggio verso il quale mi sarei recato stamattina alla prima luce del sole avrebbe potuto attendere.

Io no.

Io soffrivo il malessere occulto del provvisorio.

Il frenetico pigiare del pulcino che tenti di uscire dall’uovo

Bruno Mancini

Bruno Mancini.

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Per Aurora volume quinto

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