Così fu settima puntata

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Bruno Mancini 

Così fu

 PARTE 1

Così fu

Settima puntata

CAPITOLO 12

 

Ho chiesto un taxi.

Ho indicato la meta.

Ho pagato la corsa.

Ho atteso che si allontanasse.

Ho iniziato a muovermi verso la cascina.

La casa, imperturbabile, ha lasciato che mi avvicinassi con incedere inconsueto – deciso, ma lento -, forse curiosa di capire dove si allocassero le mie intenzioni, o forse ormai indifferente a qualunque improbabile tentativo di oltraggio.

Non ho udito scricchiolii di finestre mal chiuse e non mi hanno distratto rami ciondolanti e serpentelli striscianti negli anfratti alla base della muratura.

La casa collaborava a rendere intrigante la mia presa di possesso, e non si prestava a mostrarsi rivestita di misteri o d’imprevisti sulla falsa riga di un’avventura esotica.

La casa stava.

Eri io che muovevo passi decisi ed incerti, sicuri e titubanti, attenti e precari, passi di automa mal programmato, di veglia sonnambulica, passi guidati da una ragione extra corporea, indefinita.

Frattanto, forse, Gilda sarebbe apparsa seduta, all’ombra della magnolia che aveva la sua stessa età, sugli scalini arrotondati che segnavano l’ingresso al pergolato di canne e foglie di palme, avvolgendo un bambino in braccio.

Oppure, Gilda sarebbe apparsa poggiata al fusto della magnolia, le mani intrecciate dietro il collo, i gomiti sporgenti verso l’intruso, nell’atto di coprire il suo territorio con la stessa determinazione della belva intorno alla cucciolata.

Avresti potuto offrirle il cinghiale selvatico ucciso a morsi e pugni e lei non avrebbe ceduto un millimetro di spazio ai tuoi tentativi di avvicinamento.

Un cucciolo: Isidoro. Una zona proibita: la sua vita affettiva.

La sua cantilena: “Il mio piccino non sarà mai solo.

Il mio piccino non sarà mai solo.

Il mio piccino.”

 

Appena ho superato il cancello a stecche di ferro verticali con residui di vernici verdi e nere, ho provato, calpestando i sassi polverosi del sentiero d’accesso ad un piccolo campo, la sensazione che i miei mocassini firmati Velente avessero immediatamente odiato il titolato negoziante di Via Montepelone per non avere responsabilmente provveduto alla loro collocazione presso una figura umana adeguata, in quanto a stile di vita e classe sociale, alla origine ed al censo dei quali si pregiavano.

Tomaia di cuoio… cuciture con filo… punti a … pelle di… borchia e… vernice… con me nella polvere e nel fango.

Le scarpe con certificati di origine DOC, DOCEC, UE, MADE IN ITALY, a modo loro pensavano che neppure Napoleone Bonaparte, l’uomo delle disfatte ciclopiche, avesse subito simile affronto, e che loro, di certo, non meritavano tale ignominioso sfregio in così tenera età.

Per un attimo, poggiando la mano sul lato sinistro del cancello, nell’atto di agevolarne la chiusura difettosa a causa della ruggine sedimentata tra i mozzi dei cardini, ho avuto la tentazione di scalzarmi e proseguire a piedi nudi.

Per un attimo ho corso il rischio di vanificare fin dall’inizio il progetto amorfo appena cominciato.

 

Due colonne di tufo verde non intonacato fungevano, una – quella a sinistra entrando – da stabile appiglio verso la parte interna del podere per un sultano roveto dalle more grosse come ciliegie, il quale, a sua volta, consentiva alcuni disagiati inserimenti ad uno striminzito arbusto di capperi attiguo ad un cespuglietto di bocche di leone in piena fioritura, mentre l’altra colonna, quella verso nord, meno esposta alla calura estiva, e situata al riparo dell’ombra di un ficus alto oltre quattro metri e largo fino al successivo angolo del muro di cinta, pareva civettare nel mostrare la pelle rugosa delle sue pietre dai toni cangianti a secondo che variassero le luci e le ombre di contorno.

“Bisognerebbe scrostare le scaglie di vernice dai segmenti verticali del cancello, scartavetrare il disegno composto da semplici volute a forma di spirali che si uniscono tra di loro, e che congiungono le barre di sostegno forgiate a mano, nell’antica eleganza propria dei lavori artigianali, ribattendo il metallo su una vecchia incudine a forma di doppio cono.

Sarebbe urgente completare l’opera di ripristino ridando lustro alle lance infisse in cima alle aste divisorie ove completano la parte superiore della cancellata come una corona di artigli.

Spuntare i rami penduli spinosi che creano intralcio alla chiusura del cancello e costituiscono un pericolo per le pregiate camicie di lino inglese che indosso.

Smussare i bozzi antiestetici scavati nelle pietre dal rivolo non incanalato che cola dalla sommità del pilastro.

Bisognerebbe… ma sono pazzo?

Come se la mia presenza non bastasse già a svilire il paziente equilibrio ottenuto da questo lembo, di tempo più che di spazio, incurante delle violenze portate dagli uomini fino intorno ai suoi confini!”

L’aspirazione del pellegrinaggio laico per molti anni dato per scontato dalla nostalgia ma rifiutato dalla suggestione della malinconia, eppure mai prima valutato nelle conseguenze pratiche, rischiava di trovarsi sfaldata al momento dell’iniziale impatto con una realtà, ove i pensieri di abitudini a me comuni mostravano di essere rabberciati ad inconsueti schemi di rivolta.

Sfuggendo al dedalo di considerazioni che imboccavano l’uscio della mia attenzione, ruotando il capo in direzione del viale sommerso sotto erbacce affastellate dai lati verso il centro in un groviglio che a mala pena lasciava scorgere una porzione del tetto con due comignoli a forma di parallelepipedo, ho smesso di porre mente al lavoro manuale che sarebbe occorso per restituire i luoghi alla loro primitiva configurazione, e mi sono avviato, lentamente, verso la ricerca di una mia origine.

“CAPIRE”.

Certo anche nel viaggio mentale bisognava scostare barricate pungenti e resistenti come i roveti insediati dalla natura in maniera disordinata lungo il camminamento che conduceva alla casa, ed occorreva dipanare una immensa ragnatela di labili ricordi e trasparenti indizi agganciandone la scia invisibile con l’attenzione di chi debba razionalizzare il percorso prescelto.

 

Bruno Mancini

Bruno Mancini.

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