Per Aurora – volume terzo – La sesta firma CAPITOLO SESTO

Benvenuti

Per Aurora – volume terzo – La sesta firma CAPITOLO SESTO

La sesta firma CAPITOLO SESTO

CAPITOLO SESTO

Lunedì 12 Agosto, ore dodici, alla civile formalità giuridica del nostro matrimonio mancavano solo cinque firme.

Meno cinque.

L’Assessore Delegato, doppio petto filo di scozia blu notte spagnola, cravatta parigina fucsia con animazioni americanizzate, camicia celeste cielo di primavera inoltrata lungo il fiume Danubio, calzini bianchi dei pastori greci di capre macedoni, scarpe con tacchi cinesi lacci coreani pelli di vacche australiane ed argentine e fodere d’antichi ricami persiani, egli, L’Assessore Delegato, baffo di limitate pretese ma oggetto d’innumerevoli caricature, democristiano, ex democristiano, felice sorridente, convinto assertore dei principi fondamentali ed inalienabili del matrimonio, del divorzio, della natura, della caccia e della pesca, delle zanzare e delle zoccole (topi, ratti, pantegane) giganti e ben nutrite, delle etnie marocchine e padane, della civiltà napoletana e padana, dell’Italia e della padania, della patria unita, della patria in pezzi regionali, della patria in pezzettini provinciali, della sua personalizzata minuscola patria comunale, egli, il Celebrante la Cerimonia Civile, terminato un breve discorsetto ufficiale (bella coppia, sono certo sarà un matrimonio modell… e simili cazzate), introdusse il rito laico delle firme sul registro.
Apponendovi la propria (elaborata in una schifezza d’immenso ghirigoro geroglifico) con ostentata teatralità, non creò disagio all’istantanea apparizione del ricordo nel quale mi rivedevo il pomeriggio dell’incontro alle giostre con Gilda.
-«Ho impegnato un secolo per decidermi a fare il primo passo. Senza ribellarmi ho lasciato che la nostra amicizia giovanile, il nostro affetto, la reciproca irriducibile attrazione che ci dominava, scadessero in un algido rapporto tra il “Dottò” e la padrona dell’American bar.

Ho visto il tuo ed il mio amore, come su quella giostra, girare girare girare fino a perdere il senso dell’equilibrio, e non ho porto loro una mano a sostegno.
Devo recuperare non solo il tempo perduto, ma soprattutto il coraggio di esistere.
Sposiamoci domani.
Tu sai quanto ti amo.»
Così le avevo detto nel luna park aspettando che Isidoro terminasse un giro sul trenino.
-«Mamma mamma, è bellissimo, ci sono gli indiani e Manitù.»
-«Vuoi fare un altro giro?
Vai.
Dai il gettone all’uomo con la divisa rossa.
Vai.»
Gilda non mi aveva chiesto dove ci saremmo sposati o dove avremmo vissuto, né chi sarebbero stati i testimoni, nessuna domanda relativa al ristorante, al viaggio di nozze, alle foto, agli invitati, bomboniere, addobbi floreali, limousine, paggi paggetti, velo velette, musica cori coretti anelli… catene. Nulla.
Gilda aveva iniziato dicendo:
-«Va bene…», poi aveva atteso che il pupo fosse lontano, ed allora, guardandomi negli occhi:
-«E lui?»
-«Sarà mio figlio.»

Meno quattro.

Egli, l’Assessore Delegato, il baffo comunale, lui, sempre pronto ad ascoltare le esigenze di tutti i grandi elettori, i bisogni, le attese, le speranze, le critiche, le malefatte, le elargizioni, le risse, gli imbrogli, dei concittadini democristiani ed ex democristiani, per poi offrire a ciascuno una soluzione, un compromesso, un contributo, una presenza, una delibera, una provvidenziale dimenticanza, e pronto anche a mostrare attenzione per la stessa serie di… (che per incredibile bontà non ripeto) segnalata, alla sua attenta autorità, da parte di popolani non amati in quanto infedeli (sia ex democristiani sia non ex democristiani, comunque appartenenti ad una diversa corrente politica).
In questo caso non specifico “per offrire ecc.” poiché a costoro più che l’orecchio non metteva a disposizione altro, ascoltava sopportava e basta.
L’Assessore Delegato, il baffo comunale, lui, il Consigliere a vita, l’uditore finto semi sordo, lesto ad intervenire in tutte le occasioni di felici incontri (ignobili mostre pseudo artistiche e funerali di criminali compresi), porse la penna stilografica delle cerimonie ufficiali al testimone maschio.
L’inconfondibile figura di un mio amico la strinse fra tre dita della mano destra.
Egli, che non aveva bevuto un goccio da svariati minuti, mi rivolse un fugace sguardo d’intesa e poi subito, con la solerzia di chi vuole ritornare a situazioni meno imbarazzanti, segnò il registro scrivendo per esteso ed a chiare lettere con caratteri stampatello, soltanto il proprio nome “PETRUS”.
In quei gesti asciutti e decisi, rividi l’uguale complicità della sua accorata partecipazione nel giorno in cui, deciso a compiere il grande passo, avevo bussato all’ingresso che lui custodiva, ed essi mi parvero suggerire d’avviare la riproduzione mentale di quel nostro ultimo incontro:
-«Signor Bruno, finalmente, e tanto che non ci vediamo.
Posso offrire una birra?
Prego entrate.
Super popolare ghiacciata?»
-«Grazie Petrus, la tua accoglienza è sempre emozionante. Come stai?
Bevi anche tu con me?
Sono venuto senza avvisare.
C’è Aurora?»
-«Come potrebbe mancare, la Signora c’è sempre.
Giorno e notte, estate ed inverno, primavera, autunno, anni bisestili e giorni di eclissi compresi.
Dall’era antidiluviana alla futura apocalisse, ogni ora, minuto, istante, per tutti, bestiole comprese.
La chiamo?»
-«Facciamo prima due chiacchiere.
Ti va?»
-«Certo, accomodiamoci nel salone di ricevimento.»
Mi ero sentito perfettamente a mio agio durante il breve tragitto che avevamo effettuato per raggiungere la sala ove avevamo avuto modo di intrattenerci in molte delle precedenti occasioni.
In essa, il lampadario a cinquanta bracci, soffiato a Murano nei primi anni del dopo guerra mescolando sabbia e petrolio, troneggiava ancora, aprendo la porta, riflesso in uno specchio, irregolare, ambrato.
Gigantesco padrone assoluto dell’intera parete frontale.
Sul lato destro entrando, al centro di rustiche grotte dei desideri, sbalzava, identica al mio ricordo, la chitarra rossa d’Elvis con nel bordo basso, annodati tra i rami di una ginestra (ginestra, fiore amato dalla mia donna), trecento quasi invisibili ciondoli: ricordi di melodie assimilate in altri luoghi ed in altri tempi.
Ero di nuovo lì dove, il giorno prima del mio ultimo ritorno ad Ischia, mi erano stati consegnati magnifici doni per aver scoperto un errore gestionale che avrebbe potuto compromettere la dignità della mia Amica.
Petrus, mostrandomi il luogo dove era ubicata la pedana musicale, tra il rotondo divano nero contornato da cuscini lucidi di pelle di pantera e le piccole anse ricavate sul lato del banco bar, disse:
-«Mancano i nostri due amici.
Gli inseparabili cari compagni.
Uniti nella naturalezza di un tenero sentimento, più innamorati di mai, hanno sempre creato atmosfere musicali difficili da dimenticare.
Lui, con l’immancabile ginestra al bavero, e lei con l’identico inseparabile ventaglio giapponese a stecche di bambù che agitava nel giorno del loro ricongiungimento.
I loro posti li abbiamo lasciati vacanti, formulando in tal modo l’augurante presagio di un imminente ritorno.
Per evitare sconvenienti sensazioni di vuoto abbiamo mascherato l’angolo, come vedi, mediante la parete semitrasparente composta da un filare di fiori di ginestre frammisti a canne di bambù.»
-«Ecco le birre.»
-«Giuseppe vai alla porta.
Non ci sono per nessuno fino a nuovo ordine.
Lo so, la guerra in Iraq può fare vittime eccellenti.
Falle aspettare, o buttale giù direttamente.
Ti ricordo che il nostro amico ha ricevuto da questa Corte Suprema il titolo e gli onori di:
GRANDE SUPER GUIDA DELLE PRATERIE TRA L’ESSERE E IL NULLA.

Poi, su mia proposta il Consiglio Direttivo ha avuto il piacere di nominarlo:
CITTADINO ONORARIO CON LE CHIAVI DEL REGNO.

Nella disponibilità che le conferisce il suo ruolo preminente, lei personalmente, la Signora, Donna Guascona, per lui amica Aurora, ha decretato di assegnare al suo DNA:
UN BONUS, CIOÈ UN SUPPLEMENTO DI VITALITÀ.

Infine, per la richiesta unanime di tutto il nostro popolo virtuoso, gli è stato affidato un eccezionale cimelio:
UNA BACCHETTA DA DIRETTORE D’ORCHESTRA.

Con essa, Arturo Toscanini diresse per la prima volta a New York il 13 aprile 1913 la Nona Sinfonia di Beethoven.
Nel suo resoconto sulla rappresentazione, il “New York Herald” mise il titolo: “Il Signor Toscanini, la Bacchetta Magica della Sinfonia”.
Chiaro?
Non dimenticarlo mai.
Che aspettino gli altri, o buttali giù.
Chiaro Pepé?»

-«È proprio di questo che vorrei parlarti, delle mie onorificenze.
Ho deciso di restituirle…»
-«Benedettooooo… prego, ti prego Benedetto, due birre super popolari iper ghiacciate senza bicchieri, le beviamo con il collo nella bocca, ah ah ah, lui è un gran mattacchione, trova sempre il modo di mettermi allegria, scherza anche sui nostri doni.
Sì… vuole rinunziare!
Ditemi signor Bruno, ho capito bene?
È una burla.»
-«Petrus mi sono innamorato.»
-«Non è il caso di continuare a prendermi in giro, signor Bruno, le birre passano in un sorso.
Ah ah ah.»
-«Di una donna.»
-«È meno grave, una sola è sopportabile.
Ah ah ah.
Benedetto, pazienza, per carità Benedetto, fai portare due casse di birre dal frigorifero polare, una per me, misero miscredente, e l’altra per lui, scherzoso innamorato.
Ah ah ah.»
-«Di Gilda.»
-«Gilda?
Gilda la rossa d’Ischia?»
-«Sì, lei.»
-«NO!!!!!!»
-«Perché tanto stupore?
È la prima volta che ti vedo sputare un goccio di birra.
Improvvisamente hai cambiato completamente colorito.
Un secondo fa eri allegro ora sembri terrorizzato.
Gilda, sì Gilda la rossa di Via Colonna, ci vogliamo sposare. Che c’è di così strano ed allarmante?
Sei sbiancato.
Per lei voglio restituire i titoli e le onorificenze che mi avete elargito con tanta affettuosa magnanimità.

Non mi sembra giusto beneficiare da solo di privilegi ineguagliabili.
Lei ed io saremo un binomio indivisibile.
Né mio né suo: nostro.
Né io né lei: noi.
Come potrei custodire in segreto la bacchetta magica, il bonus di vitalità, la cittadinanza onoraria, ed il titolo di Grande Super ecc, avendo per obiettivo un rapporto paritetico e senza remore?
Voglio tornare umano tra gli umani.
Voglio, capisci?
Il mio attuale problema è come dirlo ad Aurora, senza offenderla.
Tutte le donne sono gelose e permalose.
Aurora potrebbe pensare che io voglia staccarmi dal nostro splendido sentimento amichevole, ma non è assolutamente vero.
Lei potrebbe credere che i suoi doni siano per me poca cosa, ma neanche ciò è vero.
Aurora potrebbe condannare la mia presunzione, considerarmi rimbecillito, credermi pazzo.
Ma non è vero.
Niente di tutto questo è vero.
Sono solamente innamorato e voglio vivere con la mia futura sposa, Gilda, nella identica dimensione che è consentita a lei. XYZTNOI.
Coordinate spaziali XYZ, temporale T, personali NOI.
Ho bisogno di te, Petrus.
Insieme, potremo convincere Aurora del mio immutato e profondo sentimento nei suoi confronti, e dell’amore assoluto che provo per Gilda.
Mi aiuti?»
-«No, no, non voglio ascoltare.
Gilda… è… la figlia adottiva di Aurora.»
-«La… di… Aurora?
Che sai, parla.»

-«Potessero scorticarmi beduini padani, stritolarmi gesuiti padani, bollirmi a fuoco lento pigmei padani, non dirò altro! Non altro.
Niente.»
-«Aiutami, non ti ho mentito, è tutto vero.
Anche Gilda mi ha sempre amato.
Voglio sia mia per sempre.
Ti ho portato in dono un liquore preparato con limoni che ho colto con lei sull’ultimo albero del bosco d’argento.»
-«Limoncello?»
-«Lo avevi già bevuto?»
-«Per Bacco!
Del bosco d’argento o della cava delle ginestre?»
-«Del giardino di Titina.»
-«Proviamolo.»
-«Che gusto ha?
Come lo trovi?»
-«Semplicemente squisito.»
-«Allora?»
-«Parliamone.»
-«Gilda è la figlioccia di Aurora?»
-«Non lo sapevate?
Siete pazzo, signor Bruno, ma io vi aiuto lo stesso.
Bruno, non sei folle, sei follia.»

Meno tre.

Allora venne avanti il secondo testimone, la mia amica Aurora.
Voi due lettori, stupiti, potreste pensare “Aurora testimone? Ma non è la madre della sposa?
E come, la madre fa la testimone?
Assurdo.”
Questo ragionamento ha qualche elemento di coerenza ma è viziato da due imprecisioni.
Una vostra, in quanto non ho detto che Aurora fosse la madre, bensì la madre adottiva di Gilda, e l’altra mia perché non vi ho ancora spiegato che, bevuto il boccione di limoncello e scolate le due casse di birre, Petrus ed io ci eravamo trovati semi brilli e semi ubriachi, con tanta amicizia in più, con maggiore conoscenza reciproca, ma senza un brandello di piano organizzativo da utilizzare per convincere Aurora a non ostacolare il mio matrimonio, e ad accettare la restituzione dei privilegi che mi aveva concesso.
Quando, da studente, leggevo un trattato di storia, il più delle volte ero portato a credere che toccasse a noi creare le occasioni che ci avrebbero cambiato la vita.
Nostra e di altri.
Vedi Hitler con Danzica.
Al contrario, durante lunghe immersioni subacquee, mi capitava di comprendere che anche un diverso sistema (pacifico oppure ostile poco importa), potrebbe elaborare occasioni che muteranno la nostra vita.
Un ramo di corallo incaglia la sagola e blocca la risalita all’ultimo respiro.
Uno sbiadito ricordo di quanto accadde in seguito alla disponibilità d’aiuto che Petrus mi offrì, già in partenza offuscato dalla dose massiccia d’alcool tracannato, tuttora non mi consente di comprendere chi sia stato il promotore della benevolenza con cui Aurora prese atto delle mie intenzioni, giustificandole ed operando per esaudirle.
Tuttavia è indiscutibile il fatto che ad un certo punto dell’affettuoso, riservato, intimo, confidenziale colloquio, con il ciondolante Petrus che mi sedeva accanto, io, pur essendo mezzo brillo e mezzo ubriaco, mezzo felice e mezzo incredulo, udii Aurora venirmi…
Udii?
Vidi.
Vidi Aurora dirmi…
Vidi?
Udii.
Sentii Aurora toccarmi…
Vidi Aurora venirmi incontro, sentii Aurora toccarmi la fronte, udii Aurora dire a me solo:
-«Dimentica.
Tu non sei venuto a cercarmi.
Tu non hai parlato con Petrus.
Tu non hai formulato richieste.
Tu non sai di me e di Gilda.
Dimentica.
Ricorda.
Noi saremo al fianco tuo e di Gilda.
Noi siamo vostri amici.
Noi siamo voi stessi.
Gilda non mi conosce.
Ricorda.
Aspettaci.
Celebreremo da testimoni le vostre nozze.
Io e Petrus firmeremo il registro.
Alle 12 del 12 agosto.
Aspettaci.
Aspettaci.
Petrus, regalagli un fiore di ginestra da porre sull’abito della sposa.»

Per questa ragione, quindi, la mia amica Aurora venne avanti come secondo testimone.
Mosse un passo.
Prese dalle mani dell’Assessore Delegato-Notaio la penna dai decori dorati.
Girò la testa.
Segnò il registro con un tratto per nulla lineare, incomprensibile.
Un saliscendi asimmetrico con grossi punti ai vertici superiori, che a me parve essere la riproduzione dell’accordo in Mi bemolle maggiore del secondo movimento, sinfonia n°3, opera 55, «Eroica», di Ludwig van Beethoven.
E mentre, con note dolenti, rimbalzavano nella mia mente, sia la malinconica angosciante tenera esecuzione dell’insuperabile Toscanini, sia la mai dimenticata descrizione che ne aveva offerto Samuel Chotzinoff “… il centro psicologico e spirituale di tutta la composizione e richiama, con i suoi episodi ora accorati ora grandiosi e superbi di sonorità, le vicende della vita di un grande uomo, dell’eroe nel senso più lato, che affronta e domina gli eventi del fato per arrendersi solo all’inevitabilità della morte.”, la mia amica Donna Guascona, restituendo all’Assessore Delegato – Notaio la stilografica dal nero inchiostro, lasciò uscire dalla bocca a contatto con il mio orecchio parole che speravo e temevo:
-«Ora devi essere forte».
Chiusi un attimo gli occhi per dissimulare la commozione, così o come avevo fatto il pomeriggio luminoso e silenzioso in cui, mentre m’incamminavo in compagnia della mia buia solitudine, senza valigia e senza cappotto, verso il battello che mi avrebbe trasportato definitivamente nel mondo sconosciuto della mia libertà, Gilda, nella sfacciata bellezza della sua fresca fioritura, rossa, non so se inseguendo una micina o per venirmi incontro era ruzzolata con essa tra le mie gambe chiedendomi:
-«Dove vai?»
-«Parto.»
-«Portami con te.»
Io solo so quanto avrei voluto farlo!
-«Non posso, aspettami.»
Lei solo sa quanto doloroso silenzio ammantò la sua attesa.
Un tassista di passaggio pigiando il clacson come si usa al corteo di una sposa, rideva rideva rideva suonava suonava suonava diceva diceva diceva:
-«Acchiappala acchiappalo acchiappala acchiappalo.»

Meno due.

L’entrata rumoreggiante di un uomo trafelato, ansimante, eccitato, mi apparve dapprima nella improvvisa espressione di stupore timbrata sulla faccia baffuta dell’Assessore Delegato – Notaio, poi nel brusio attento e composto dei quattro dipendenti comunali che assistevano all’evento, infine nell’urlo, era un urlo, nessuno meglio di me conosce quel tipo d’urlo, l’urlo di una canzone disperata “Oi ma’ tu che me fatt e che me ditto, nu chiuovo dinto o core me nchiuvato”, il disperato urlo della belva ferita, King Kong sul grattacielo, la ciociara, il volo a piombo verticale di un innocente l’undici settembre, l’urlo di Ignazio:

-«GILDA NON FARLO.»

Aurora sottovoce mi ingiunse di non voltarmi, ed io ubbidii, cercò lo sguardo di Petrus per dirgli:
-«Ora», e tanto bastò a che immediatamente il mio XYZT, tre dimensioni spaziali ed una temporale, venisse troncato in due.
L’ordine della mia amica Signora, già programmato e detto in silenzio, provocò l’effetto di lasciarmi in quello stesso spazio, ma di trasferirmi in un tempo diverso.
Gli elementi delle mie coordinate XYZTIO (ics ipsilon zeta tau io) si trovarono a cavallo, in equilibrio, tra un luogo ed un’ora, tra due fenomenologie differenti, tra un prima e un dove, tra me stesso ed i miei ricordi.
Posizionati nella sfera di un punto dal quale il mio IO, in bilico su un se stesso, non riusciva a decifrare chi fossi, dove e da quando.
Correvo, credevo di correre, credevo di ricordare di correre, correvo ricordando di credere.
Correvo in bicicletta, correvo in bicicletta per una salita, per una salita sterrata, per una sterrata buia, immerso nella buia notte senza luna, nella notte buia senza luna, correvo in bicicletta per una salita sterrata nella notte senza luna successiva, credevo di correre in bicicletta per una salita sterrata nella notte senza luna successiva a… al giorno in cui Gilda, bambina, inseguita dalla madre era finita a rotolare tra le mie gambe e le ruote della bicicletta che mi era stata regalata per la promozione scolastica.
Al Corso Colonna, davanti al bar Italia.
Sudavo, sbuffavo, pedalavo, ma le curve in salita non finivano.
Al termine di un tornante, un filare di vigne a malapena riconoscibili sul bordo della strada priva di parapetto, mi aveva dato l’impressione, solo l’impressione, di un falsopiano finalmente scollinante.
Niente.
Riprendevo a pigiare sui pedali nel buio quasi assoluto, mettendo in continua discussione, oltre che il tratto da seguire per superare più agevolmente l’ennesima fatica imposta dalla curva a gomito, anche ed in ogni istante, la mia non programmata sete di avventura.
A soli tredici anni, su per un colle di settecento metri, lungo una via mai percorsa prima, inforcando una bicicletta dal cambio Campagnoli a tre soli rapporti e costruita con i pesanti materiali dell’epoca, in una notte senza luna, lungo un percorso disseminato da insidiosi burroni e continue innumerevoli curve cieche e svolte allucinanti, non mi rendevo conto di stare vivendo le mie prime quattro ore di assoluta solitudine.
Sdoppiato tra tempo e spazio, tra la brace e la padella, forse montavo in sella alla mia infanzia.

Gilda la rossa, non più irrequieto scugnizzo ma ora padrona assoluta di un intuito animalesco, non ebbe bisogno di voltarsi per comprendere.
Volle impedirmi d’essere partecipe, complice, corresponsabile della sua rivincita, e stingendomi il polso con la mano ancora priva dell’anello nuziale, alzò l’altra, a palmo aperto oltre la criniera dei capelli rossi sparsi sugli omeri (Mosè nel passaggio del Mar Rosso, la carica dei cinquecento, ALT, lo giuro), oltre il mantello della chioma adagiata sulle spalle in boccoli rossi, a palmo aperto senza voltarsi:

-«SPARISCI BASTARDO»

fece rimbombare nella semivuota sala consiliare.

-«SPARISCI BASTARDO».

Due volte in una successione che non consentiva equivoche interpretazioni.

-«SPARISCI BASTARDO».

Gilda per tre volte, senza voltarsi, con la voce profonda di mio padre, come una condanna definitiva, ripeté la frase della sua vittoria, quindi piegò verso il basso il busto con i movimenti armonici di mia sorella (un canneto nella bufera, la planata di un aquilone, curve fattezze di Renoir, quando sarò vecchio col bastone, l’omaggio finale al pubblico del San Carlo).
Spavalda, mostrò tra le dita affusolate di mia madre, la stilografica delle grandi occasioni dall’inchiostro nero nero nero con i decori dorati ed il pennino luccicante (la lancia di Don Chisciotte, un palo di telegrafo, la statua della libertà).
Decisa, sicura, veloce, zac, zac, zac, nel silenzio tombale della sala comunale, come nell’atto finale di una corrida, toreador ed animale, zac zac zac crivellò il registro con il suo nome.

Meno uno.

La donna guascona lasciò trascorrere l’attimo necessario a che l’eco spersonalizzata di quella condanna estrema giungesse nel buio della mia salita tra curve di strade sconnesse costeggianti infidi burroni, ed allo sguardo immobile di Petrus impose:
-«Continua».
Io finii, con la memoria, in miseri vicoli malfamati al centro di un inestricabile labirinto diramato giusto alcuni passi dietro vetrine, dal lusso sfacciato, esposte sulla strada famosa per i monumentali palazzi della nobile società napoletana.
Tra folla di gente in lotta per la sopravvivenza, ancora maggiormente mortificata dal contatto fisico con i vicini spregiudicati venditori di beni essenziali a tassi d’usura.
Ero dove la luce del sole non si presentava per non avvilire lo scuro delle anime vaganti, dove i giorni non contavano perché sempre tutti identici ed inutili, dove i bambini ed i vecchi non conoscevano diritti, dove la vita di un forestiero valeva un quinto del suo orologio, dove le sigarette le droghe le puttane, dove, allora, quando… quando mi sembrava di incontrare Gilda adolescente, spilungona e scorbutica, che rompeva il naso ai maschi se la trattavano da femminuccia, salvo poi correre verso le mie gambe che reggevano la grossa moto regalo dell’ultimo esame universitario.
«Firma il registro» mi disse Aurora, contemporaneamente mostrando a tutti un ventaglio di seta giapponese, aperto, dai colori sgargianti, che la donna dell’appuntamento, la dolce Edith, l’anima della fantasia da sempre per me inseparabile compagna in tutte le vicende letterarie, aveva inteso consegnarle quale pegno d’adesione alla mia scelta.
Simile alla sua, certamente difficile.
Entrambe stupende per quanto di eterno, infine, avevano meritato nell’assoggettare ad un caduco amore terreno una immortalità esautorante qualsiasi sentimento.
Era quello stesso ventaglio modellato a forma di conchiglia che lei, la dolce Edith, la donna dalle mani ambrate, aveva agitato in semicerchi minacciosi voltando e voltando il busto eretto nelle lame del vestito nel giorno, per lei decisivo, del suo tenero “Appuntamento” con l’uomo dallo smoking bianco senza sfumature e dal fiore di ginestra (ginestra, fiore amato dalla mia donna) all’occhiello del bavero.
Non ebbi alcun dubbio nel comprendere la forza del sentimento che la cara Edith mi manifestava.
Congiunte dal lucente tessuto orientale, le stecche di bambù erano imperniate, nella parte inferiore, tramite un particolarissimo anello d’oro bianco con pietra di rubino.
Inconfondibile, esso era stato l’inseparabile gioiello dell’uomo dall’impeccabile smoking bianco senza sfumature e nessuno avrebbe mai potuto costringerlo a separarsene.
Era evidente che lui aveva deciso di privarsene da solo, lui, Il professore Edoardo, lui, lo spietato cervello del tormento stilistico che aveva scavate le mie idee.
Non ebbi alcun dubbio nel comprendere il valore inestimabile del dono che mi offriva.
Aurora chiuse il ventaglio, lo roteò di mezzo giro e lo tenne in bilico sulla falangina dell’indice puntato verso di me.
Bene in vista.
Al centro della luce proveniente dalla finestra aperta.
Osservai per qualche attimo il suo volto impassibile e poi di nuovo rivolsi la mia attenzione al ventaglio fermo a mezz’aria, immobile, bene in vista, al centro della luce proveniente dalla finestra aperta.
Simile al braccio di una bilancia posato sul cuneo formato dal dito di Aurora, non dondolava.
Conoscevo troppo bene la Donna Guascona per non comprendere la doppia allegoria del messaggio che mi stava inviando.
Non ebbi alcun dubbio.
La fantasmagorica illusione ottica decorata sulla scintillante seta orientale, in perfetto equilibrio con la preziosa durezza della gemma di corindone rosso!
Nel mondo dell’arte, la fantasia ed il tormento stilistico, pur distinti e disuguali, si sarebbero equivalsi se fossero stati sorretti dal gancio della verità!
Nel mondo dell’esistenza, l’anima ed il cervello non avrebbero dovuto sopraffarsi per non precipitare entrambi!
L’indice della mia amica Aurora era rivolto verso di me, né per minaccia, né per richiamo, ma come segno di scelta elettiva.
Ritornai lentamente con lo sguardo negli occhi di Aurora, affinché vedesse le mie palpebre chiudersi tre volte.
Avvicinai il registro ad un bordo del cavalletto di sostegno, e con grande sforzo di concentrazione riuscii ad imprimere un sottile tratto accanto alle altre firme.
Poco più comprensibile del breve tracciato di un elettroencefalogramma cardiogramma quasi piatto, il mio nome, la quinta firma, avrebbe dovuto concludere il rito.
Fu come estrarre la madreperla a quindici metri di profondità in un’apnea al sorso finale.

Zero.

Il gesto ipnotico con il quale calai la testa per apporre la firma, e la lieve torsione del busto verso il lato del leggio, furono sufficienti a che l’ombra che m’incombeva alle spalle, il sofferto spirito di assurde avventure, il mostro ingordo e allucinato, fantasma tra le grotte inesplorate della mia coscienza, Ignazio, notasse le dita affusolate e l’inconfondibile armonia dei gesti che compivo.
La “Signora” disse:
-«Ora».
Petrus chiuse gli occhi.

Ignazio, si spostò di un passo per scrutare le pieghe nascoste del mio viso.
Ci eravamo lasciati da così poco tempo che a lui, mio fratello gemello, bastardo avventuriero, furono sufficienti minimi particolari per riconoscermi.
La Donna Guascona infilò l’anello nuziale al dito della sposa.
Petrus compì lo stesso rituale all’anulare della mia mano.
Ignazio, il tormento di ognuno dei giorni e di tutte le notti che avevo trascorso insonni, l’umanizzazione della mia fantasia, scelse da solo la sua parte nella storia che andava a compimento.
Giunse a nostro contatto, avvicinandosi con i movimenti armonici di mia sorella, estrasse dalla tasca l’arma preferita per le sue battaglie (poteva sembrare una maxi penna stilografica), e con la voce profonda di mio padre scandì:
-«Manca un sigillo al vostro amore perché io possa andare a guardare il bene che non ho fatto.»
Con le dita affusolate di mia madre…

Bum
… si fece esplodere la cartuccia…
Bum
… tra gli occhi…
Bum
Uno schizzo rosso sangue…
Bum
… sparso sull’album delle nostre nozze…
Bum
… fu la sesta firma, la sua, posta ad avallare il sogno della mia vita.

Non firma, sigillo, aveva detto.

Ignazio, l’immortalità dei miei pensieri, liberò per noi, con il clamore che si conviene ad un amante tradito, la tanto attesa felicità terrena.
La sua sesta firma, il definitivo sigillo, fu l’indelebile riconoscimento della mia nuova coscienza.
Mi girai, guardai il suo corpo a terra con gli occhi vitrei in una maschera rossa, finsi di non riconoscermi, lo riconobbi, non piansi per non svelare il segreto del mio passato.
Strinsi in un abbraccio, antico e nuovo, Gilda, l’iconografia di tutto quanto avevo ed avrei amato, per sussurrarle, con il solo pensiero:
-«Il tormento è finito.
Per me la vita ricomincia.
La nostra unione sarà perfetta.
Io per te sarò migliore».
Isidoro, il pupo giovane e adulto, non più frutto di un incontro sbagliato e prematuro, ci corse incontro con i movimenti armonici di mia sorella, mi strinse le gambe con le dita affusolate di mia madre, chiedendomi, tra pianto e sorriso, e con la voce profonda di mio padre:

-«Papà, papà mio, vorrai bene un poco anche a me?»

 

TESTO COMPLETO IN LETTURA LIBERA

Dedica – Brevi commenti amichevoli

Only you

Only you

Così o come

Parte Prima

CAPITOLO PRIMO

CAPITOLO SECONDO

CAPITOLO TERZO

CAPITOLO QUARTO

CAPITOLO QUINTO

CAPITOLO SESTO

Così o come

Parte seconda

CAPITOLO PRIMO

CAPITOLO SECONDO

CAPITOLO FINALE

Only you 2

Only you 2

La sesta firma

CAPITOLO PRIMO

CAPITOLO SECONDO

CAPITOLO TERZO

CAPITOLO QUARTO

CAPITOLO QUINTO

CAPITOLO SESTO

CAPITOLO FINALE

Poesia sporca

Poesia sporca

Per Aurora – volume terzo – TESTO COMPLETO IN LETTURA LIBERA

Per Aurora – volume terzo di Bruno Mancini

ACQUISTA COM www.lulu.com

Per Aurora – volume terzo – Vetrina LULU

Per Aurora volume terzo di Bruno Mancini

seconda edizione

ID 29y6wr

ISBN 9781471074813


Bruno Mancini
ISBN 978-1-4710-7481-3
Versione 2 | ID 29y6wr
Creato: 26 ago 2022
Modificato: 27 ago 2022
Libro, 135 Pagine
Libro stampato: A5 (148 x 210 mm), Standard Bianco e nero, 60# Bianco, Libro a copertina morbida, Lucido Copertina
Prezzo di vendita: EUR 14.00

Informazioni sul copyright
Revisiona le informazioni sul copyright
Titolo
PER AURORA volume terzo
Sottotitolo
Alla ricerca di belle storie d’amore
Collaboratori
Bruno Mancini
ISBN
978-1-4710-7481-3
Marchio editoriale
Lulu.com
Edizione
Edizione arricchita
Dichiarazione dettagliata di edizione ( / 255)

Licenza
Tutti i diritti riservati – Licenza di copyright standard
Titolare del copyright
Bruno Mancini
Anno del copyright
2022


Descrizione
Alla telefonata di Gilda seguì lo sferragliante rumore del chiavistello divenuto rugginoso per essere rimasto a lungo inutilizzato.
Geltrude, entrando con la cautela e la discrezione di chi non deve disturbare:
-«Dotto’ già sveglio?
Come mai?
State bene?»
-«Sì. Tutto a posto.
Tu sei mai stata sola?»
-«Dotto’ per stare soli, bisogna essere soli.
Io non sono mai stata niente, figuriamoci se mi potevo permettere il lusso di essere sola.
Stare sola?
La solitudine!
Voi ve la potete permettere.
Io no.»

Tabella dei contenuti
Per Bruno Mancini: brevi commenti amichevoli.

“Percorso di memoria o ricerca di spazi temporali virtuali?”
“Il continuo intersecarsi di livelli di identità con ipotesi e incarnazioni simboliche…”
“…sembrano accarezzare un sogno lontano, una speranza che non sarà mai certezza, un miraggio di felicità che si perde oltre l’orizzonte illusorio di fragili esistenze.”
“…a volte lirismo crepuscolare, intriso di soffusa malinconia, di struggente tristezza.”
“Opera interessante per i contenuti e le tematiche affrontate, nonché per i valori estetici…”
“… seria preparazione, corredata da rimarchevole fantasia.”
“… lavoro meditato, armonioso di buon afflato poetico.”
“… sincero, elegante, sempre aderente al soggettivismo letterario del particolare momento che attraversiamo.”
“Non racconto né romanzo, più che risolverli lascia aperti molti quesiti anche sul piano puramente tecnico linguistico.”
“Una prosa lacerata e sfuggente…”
“Le aperture liriche, più che segnare il passo dell’emozionalità, offrono un ulteriore invito a perdersi nei labirinti della parola scritta…”
“Quasi poesia cruda, percuote e carezza, giovane e antica…”
“Lavoro intenso, vissuto nella profondità della sua composizione, fatta di toni e di immagini…”
“Una voce nuova che chiama ad ascoltarla ed a giudicarla senza inibizioni, come liberamente essa è sviluppata.”
“Troverete un urlo e un soffio di amore, un vuoto, immersi nella forza e nella malinconia di chi comprende che…”

Per Aurora volume terzo

seconda edizione

Info: Bruno Mancini
Cell. 3914830355 tutti i giorni dalle 14 alle 23
emmegiischia@gmail.com

 

Visits: 64

DILA

Premi Otto milioni

Bruno Mancini

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *