IL DISPARI 20240506 DILA APS

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IL DISPARI 20240506 DILA APS Redazione culturale

IL DISPARI 20240506

IL DISPARI 20240506 DILA APS

Così o come

Un racconto di Bruno Mancini

inserito nel volume “Per Aurora volume terzo”

Nona puntata

Parte seconda

CAPITOLO SECONDO

Neppure intendo dilungarmi intorno alle priorità che tentavano di occupare un posto nelle poche ore disponibili.
In questo contesto potrebbe risultare un elenco penoso, lacrimevole, mentre invece, con una differente atmosfera, sono sicuro di non aver difficoltà a dimostrarne la bellezza emotiva, pur nelle contrastanti armonie.
A titolo di esempio: avrei dovuto provvedere a cambiare l’acqua nella boccia di vetro dei miei amici pesciolini rossi ed aggiungere qualche razione supplementare di scaglie Goldfish Food, non senza irritante dispendio di minuti preziosi, oppure dare precedenza alla chiusura dei rubinetti?
Gas, acqua, luce, finestre, spazzatura, garage.
Ritirare i depositi dai conti bancari postali azionari, oppure effettuare una fuga in taxi per una foto in autoscatto sul ponte del Castello Aragonese, all’ombra dell’ultimo pino, tra le canne del vigneto, sulla cresta del monte Epomeo? Telefonare?
Incontrare?
Lasciare biglietti?
Spiegando, allarmando, creando apprensioni?
Troppe cose, troppe azioni, troppe persone, troppi affetti, fino alle ore venti.
Non un minuto oltre.
Ei, Ignazio, mio gemello, non immaginava il destino comune del nostro prossimo percorso.
«Aiutami» erano state le sue prime parole «Aiutami» e fu subito pronto, non chiese spiegazioni, nessuna titubanza, allorché vide le mie dita affusolate cingergli il collo, il mio corpo armonioso muovere verso l’uscita, ed udì la mia voce profonda dire «Andiamo. Non aspettiamo oltre. Ora o le venti, è uguale. Andiamo
Non chiusi la porta, spensi solo la luce.

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Parte terza
 
CAPITOLO PRIMO

Toc toc.
Pausa.
Toc toc toc.
Crcrrrrrrrrr
Signor Bruno!»
Ciao Petrus, come stai?»
Grazie, bene, come un vecchietto. Entrate presto, fuori è pericoloso
Pericoloso?»
Forse non lo sapete ancora, di là è scoppiata una guerra nucleare. Potrebbero arrivare delle radiazioni fin quassù.»
Non sei per nulla cambiato, mattacchione.»
Il signore è Vostro amico? Sì?
Prego entrate… Signor…?»
Ignazio di Frigeria e D’Alessandro… grazie
Aurora c’è?»
Certo per Voi, Signor Bruno, c’è sempre.
Vado a chiamarla.
Intanto gradite una birra ghiacciata? La solita popolare?»
Grazie ma non ghiacciata… inizia a darmi problemini… fredda, popolare… anche per Ignazio. Vero? E tu non bevi un boccale con noi?»
Certo!
Se Vi è gradito, certo.
Vengo subito, accomodatevi, siete a casa Vostra. Sapete bene quanto Vi stimi la nostra “Signora”.
Vado e vengo. Subito.»
Non correre Petrus, non abbiamo fretta, siamo in anticipo.»
Appena Petrus si allontanò, Ignazio disse:
Siamo? Perché siamo? Io, sono convocato. Io sono.»

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L’assegnazione dei personaggi agli interpreti è un’arte che solo l’esperienza insegna.
Il ruolo del burbero, del tirchio, del bell’Antonio, della serva, non vengono sempre carpiti con immediatezza da tutti i figuranti.
Si è bravi generici quando si è propensi all’adattabilità.
Chi soffia nel flauto ne cava le note.
Conoscevo il luogo nei dettagli.
La facciata della vecchia villa schiusa dal cancello di ferro battuto, la sala d’attesa con l’angolo bar: divani di pelle nera e pianoforte sulla pedana semi tonda.
La terrazza dalla bella vista sulle cascate sul monte e verso le foreste.
Sapevo bene che nessuno avrebbe osato fermare i miei passi.
Ero in anticipo.
Ero un amico.
Di Aurora.
La “Signora”.
Ansioso irrequieto schizzato nevrotico, mi dimenavo come un leone in gabbia durante lo spettacolo circense della vigilia di Natale.
Ero anche certo che in nessuno si sarebbe mai, neppure lontanamente, insinuato il sospetto che le mie palesi curiosità fossero, in qualche modo, substrato d’indagini negative, oppure, peggio, potessero essere di contrasto alla migliore immagine del perfetto regno diligentemente diretto dalla Donna Guascona, Aurora, la Signora.
Avevo tempo, potevo farlo, mi spinsi oltre il cartello “Uffici, Vietato Entrare”
Vieni con me e taci» così intesi rispondere al silenzio inquietato di Ignazio.
In epoche recenti, il nobile vezzo antico dell’esplorazione, è “scompisciato” in una grande collettiva scientifica analisi di percorsi (variabili, variati, allusivi) tra “supposte supposizioni”.
Per scoprire l’Antartide, il bel sistema mondo visivo attuale ne assegna la ricerca in porzioni, non superiori ad un metro quadrato, a favore di ciascuno dei milioni di prezzolati assistenti degli assistenti dei ricercatori assistiti.
I dominatori dei laboratori vincenti, chiedono ottanta zecchini, per una manciata di polveri medicamentose.
Le puttane di Venezia la davano per meno al Grande Casanova.
Altra razza altra gente.
Non avrei mai immaginato che fosse possibile rendere funzionale un centro operativo come quello presente nei locali delimitati dal cartello “Uffici ecc…”.
Dimensioni enormi.
Assolutamente unico.
Non siate tristi piccoli fiori di loto dagli enormi occhi a mandorla, artefici di tante applicazioni tecnologiche, in quanto il vostro impegno al banco di lavoro non è mai responsabile per gli utilizzi del grammo di silicio che intrappolate ed irreggimentate.
Lì, nei locali “Uffici. Vietato Entrare.”, né granelli di polvere, né minimi corpi estranei avrebbero potuto intrufolarsi più avanti degli innumerevoli sbarramenti chimici nucleari biologici.
Concepiti per rimanere immacolati, gli ambienti si aprirono, accogliendoci, immediatamente dopo che alcuni specifici addetti ebbero provveduto a sterilizzare completamente ogni parte del nostro corpo, seguendo un elaborato procedimento senza dubbio previsto dal protocollo d’accesso.
Lì dentro tutti i cablaggi si visualizzavano mediante raggi laser diversificati per bande cromatiche.
Segui me. Non parlare.
Non toccare.
Non ora
«Centro elaborazione dati DNA
Entriamo.

Non ho particolare soddisfazione nella stesura di questa sezione della storia, in quanto la didascalica semplificazione che necessita la comprensione dei cardini ad essa relativi opprime fantasiosi movimenti letterari che, da sempre, considero maggiormente piacevoli delle gabbie di coerenze stilistiche che ne limitano l’espressività.
Comunque, Aurora tardava a raggiungerci e noi frattanto consentivamo che zelanti burocrati incappucciassero le nostre teste con l’ultima novità nata nel settore delle trasmissioni audio visive.
Parlo del nobile “Cip-Ciop”, commercializzato successivamente ai vari ex (tam tam telefono telefonino radiografia ecografia radar televisore infrarosso infra tutto) che erano già invecchiati da tempo.
A detta della pubblicità intergalattica: «Cip-Ciop ti fa parlare con chi vuoi e controllare visivamente anche i neuroni.
Cip-Ciop è senza fili e senza antenne.
Il rivoluzionario apparecchio, Cip-Ciop opera mediante un rivoluzionario collegamento neurologico.
Cip-Ciop, se vuoi, non parli e la tua lei ti ascolta.
Oppure, se preferisci, tu vedi lei, la vedi, e lei non lo sa.
Cip-Cip, è in vendita nei migliori negozi spaziali.
Cip-Ciop, apre il tuo futuro ».
La nuova Venere di ambiziose conquiste digitali!
Per la verità, nei locali del regno di Aurora, esso, l’aggeggio, discendente dell’illustre “tam tam”, assolveva un compito particolare: consentire la trasmissione delle informazioni tra gli stagionati impiegati fossilizzati nelle specifiche sezioni, non creando, nel contempo, spiacevoli turbolenze verso i comunicati provenienti dall’esterno.
Insomma,  con “Cip-Ciop”, i pensieri miei si sarebbero trasferiti nel cervello di colui o coloro che avrei selezionato quale ricevente, e soltanto nel loro.
Nessun altro avrebbero potuto in alcun modo intercettarli.
Al solo scopo di non deludere l’aspettativa di aiuto richiestomi in lacrime da Ignazio, feci in modo che i silici dei nostri strumenti stabilissero, unicamente tra noi due, un permanente contatto reciproco.
Lo sviluppo di un bruco in farfalla.

Continua lunedì prossimo

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Il Dispari 20240422

Il Dispari 20240422 – Redazione culturale DILA APS

Così o come

Un racconto di Bruno Mancini

inserito nel volume “Per Aurora volume terzo” Ottava puntata

Parte seconda

CAPITOLO PRIMO

I bulbi oculari mi facevano male, forse per la scarsa luce, forse per il poco sonno, forse per le tante ore trascorse a scrivere, forse per l’età, ma certamente andava ascritta al mio disordine mentale una qualche responsabilità per aver provocato il loro roteare senza punti fissi di riferimento.

Fermò le dita affusolate di mia madre, piegò verso l’alto il corpo armonico di mia sorella, e con la voce profonda di mio padre «Io sono Ignazio» disse.

-«Ignazio?»

-«Sì Ignazio»

-«E allora? Con ciò? Che cazzo significa? Basta indovinelli. Parla o vai. Ignazio, Filippo, Marco Aurelio, Giulio Cesare che me ne fotte del tuo nome!
Parla o vai.
Bevi, fuma e vai di corsa.
Non ho mai tempo per nessuno, figuriamoci oggi.
Non ne ho abbastanza neppure per me!»

-«Io sono Ignazio di Frigeria e D’Alessandro.
Tuo fratello gemello.»

Scolorire al buio.
Perdere battiti cardiaci.
Stoppare il respiro.

Chiusi gli occhi e mi chiesi se credere che i sogni si generino prima dei fatti, oppure se persuadermi che ne siano una rappresentazione.
Le fantasie germogliano da oniriche trasgressioni mai metabolizzate, oppure ne costituiscono le origini?
Prima l’uovo o la gallina?
Ignazio di Frigeria e D’Alessandro: il mio passato di sfrontate personificazioni dei mali del mondo.
La droga, la guerra, l’azzardo, lo stupro, si erano, tramite lui (visto da sempre quale compendio d’ogni maleficio), materializzati nella persona del traghettatore piagnucoloso che si dichiarava mio fratello e del quale mi impressionavano alcune caratteristiche fisiche: la voce profonda di mio padre le dita affusolate di mia madre ed il corpo armonioso di mia sorella.
Nel mio passato era stato un sogno, una visione?
A raccogliere i cocci di una bottiglia era la presenza di un incubo, d’una allucinazione?
Allora, quando scrivevo di Ignazio il combattente in Viet Nam, mi sfidava una forza di coesione che non si lasciava cancellare dal tempo e dalla distanza?
Il richiamo di una energia sconosciuta?

Nella situazione che stavo vivendo per il trasferimento che mi accingevo a compiere, ero oppresso dall’ossessione di pretendere una vicinanza familiare?
Ignazio, per me, padre madre sorella?
Mi chinai nell’atto di sollevarlo, ponendo i gomiti fra tronco e braccia, e quando il suo viso, assecondando i movimenti che compivo, giunse ad un palmo dalla mia bocca «Non ho fratelli» sentenziai «Non ho mai avuto gemelli, tu sei il parto della mia fantasia, tu sei mio.
Ignazio di Frigeria e D’Alessandro mi appartiene.
u mi appartieni», attesi l’attimo necessario a che deglutisse l’assoluta determinazione da cui mi sentivo invaso, e stringendo i polsi fra i pugni chiusi ai lati del suo torace, con la calma della follia «Perché sei qui?» gli chiesi.

Finalmente, sul soffitto, al centro del mio mondo, accesi il faro delle grandi occasioni.

Il Dispari 20240422 – Redazione culturale DILA APS

CAPITOLO SECONDO

Non poter descrivere nei dettagli la serie di virulente emozioni che mi procurò il prosieguo dell’incontro con il mio gemello Ignazio, è il prezzo che voglio pagare per non derogare dalla militaresca sottomissione al principio di essenzialità nel quale ho deciso di rinchiudere l‘esposizione di questa storia.

Ero certo «Alle venti sarò da Aurora.
Non un minuto oltre».

E come potrei esaurire, con locuzioni brevemente tratteggiate, la descrizione del patos -posso dire a mala pena celato-, che lui mi aveva procurato definendo con frasi stringate la precisa e dolorosa ricostruzione dell’intrigata vicenda che aveva determinato la nostra separazione, nel 1943, tra guerra, fame, tradimenti?

Avevo ascoltato un Ignazio finalmente privo di reticenze.
Albeggiava.
Il gallo, i passeri, la fresca brezza che in tempi andati forse spegneva le lampade a petrolio sulle vie, il primo discreto avvicinarsi di un pullman di linea, il rombo soffuso del volo aereo Venezia Napoli, segnalavano con sufficiente precisione lo sviluppo delle ore.
Le quattro e venticinque.

Ero certo «Alle venti sarò da Aurora».

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Se mi sarà concesso, quantunque in un luogo differente e con altra penna, colmerò le tante lacune di questa ricostruzione, cimentandomi in una impresa narrativa che non potrà in quel caso essere ridotta ad un breve racconto.
Se sarà.

In sintesi, il suo racconto iniziò dall’età di cinque anni, nel 1948, quando io vivevo ad Ischia senza luce elettrica e senza acqua corrente.
Ignazio abitava, con la famiglia dalla quale a sua insaputa era stato adottato, in una sfarzosa tenuta spagnola assegnata, in segno di cameratismo, dal “Franco” allora dominante all’amico gerarca fascista che si era rifugiato sotto la sua protezione subito dopo la fuga del re dall’Italia.
Nel 1948 la balia gli svelò una prima parte del segreto: «Sei un bimbo adottato.»
Lui non capì e proseguì nella sua infanzia.
O non volle comprendere?
A me quell’anno non dissero niente.
Tutto, così, proseguì uguale a sempre.
Nella solita consuetudine.
Nel 1961, compivamo diciotto anni.
L’invecchiato comandante in esilio convocò il giovane Ignazio nello studio tappezzato da grossi volumi di libri mai letti, ed in quella occasione parato a festa con stendardi sfilacciati di una unica etnia svolazzanti tra tazzine da caffè rigorosamente nere, per comunicargli, adagiando rispettosamente la mano destra sulla banderuola che tra tutte figurava il riconoscimento per il maggiore atto di eroismo bellico, ufficialmente formalmente «Tu hai un fratello gemello.»

La frontiera nazionale del Montecarlo passa attraverso la struttura edilizia d’alcuni alberghi, cosicché ai privilegiati clienti è sufficiente spostarsi di una camera nello stesso ambito residenziale per godere degli effetti giuridici di un altro stato.
Simile trasferimento fece Ignazio.
Solo?
Con un fratello?
Io sono, lui è.
E tutto proseguì nella stessa identica ripetitività quotidiana.
A me nel 1961 non dissero nulla e nulla mutò.
Nessun particolare era rimasto inciso nei miei pensieri.

Mi chiesi quanti parenti ed amici avrebbero avuto la facoltà d’aiutarmi provvedendo alla discreta ricostruzione dei segnali che, forse, io non avevo recepito, oppure che, invece, in una ipotesi maggiormente attendibile, nessuno di loro in tanti anni si era mai proposto di far balenare davanti alla mia mente. Neppure sotto una qualsiasi forma allegorica o mediante l’ambigua divinazione di un improbabile oracolo.

La gente che mi era stata vicina, spesso amica, a volte finanche unita da un vincolo d’intimità, e che sapeva, la gente delle mie terre, delle mie case, dei miei rifugi, non aveva, fino ad allora, illuminata un’ombra sufficiente affinché potessi impossessarmi delle vicende essenziali alla comprensione di questa parte della mia storia personale!

Ignazio era stato davvero tutto nella vita: un gran colpo di sfida perenne.

Non mi svelò alcun particolare somatico o caratteriale della sua madre adottiva, neppure durante il sofferto ricordo del segreto che lei gli aveva voluto rivelare, mentre oramai le sfuggiva la vita, dicendogli «Tuo fratello è Bruno Mancini.» Poco dopo, serenamente, finì.
Sono il fratello, ma per lui non cambiò nulla.
Non ne ero a conoscenza, e per me fu ancora come prima.
Tutto uguale per noi.

Veniamo al dunque.
La sua confessione ebbe termine alle cinque e trentotto.
ra suonata la sveglia dell’inquilino, di professione muratore, che alloggiava nei locali adiacenti alla parete del mio angolo di complicate meditazioni.
Era male tarata, può darsi volontariamente, altrimenti perché avrebbe strimpellato alle cinque e trentotto?
Cinque e trenta va bene.
Cinque e trentotto non va bene.
Non collima.
Non si spiega.
Siamo tutti formalisti.
Lui disse «Sono qui perché mi hanno convocato.
Aiutami.
Voglio il tuo aiuto.»

-«Che incredibile coincidenza! Quando?»

-«Fra poco, alle venti.»

Quanto tempo occorre per arrostire una catasta di funghi campagnoli d’origine dubbia, e mangiarli tra fette di pane pugliese e litri di birra popolare?
Quanto tempo ci vuole per fare uscire dallo scroto i coglioni distrutti e sbatterli nel ventre della puttanaccia internazionale?
Per salutare gli amici?
Mortificare i nemici?
Stringere al petto la donna amata?
Bere, bere, bere, scrivere, scrivere?
Guardare le stelle?

Troppo.

Neppure intendo dilungarmi intorno alle priorità che tentavano di occupare un posto nelle poche ore disponibili.
In questo contesto potrebbe risultare un elenco penoso, lacrimevole, mentre invece, con una differente atmosfera, sono sicuro di non aver difficoltà a dimostrarne la bellezza emotiva, pur nelle contrastanti armonie.

A titolo di esempio: avrei dovuto provvedere a cambiare l’acqua nella boccia di vetro dei miei amici pesciolini rossi ed aggiungere qualche razione supplementare di scaglie Goldfish Food, non senza irritante dispendio di minuti preziosi, oppure dare precedenza alla chiusura dei rubinetti?

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