Redazione – Virginia Murru

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Eduardo Cocciardo legge L'antologiaIschia mare e poesia - Biblioteca Comunale Antoniana 14 Gennaio 2011Riccardo Cocciardo
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Apoteosi di un estro artistico: Thomas Mann
Di Virginia Murru
Scorrendo velocemente le pagine de ‘La Montagna incantata’, non si ha molto tempo per orientare l’attenzione sulle capacità narrative dell’autore, poiché le immagini si propongono reali e frenetiche, scorci di panorami umani inediti,
che si delineano brillanti, certificati in ogni dettaglio. Non è possibile una treguain quell’avvicendamento di episodi, estrapolati a un quotidiano che è lotta in sordina con un male divorante, all’interno di una struttura sanitaria che di tutto escogita per rendere piacevole la degenza ai suoi ospiti. Leggendo il romanzo, si può avere l’impressione d’essere spettatori in una scalinata d’anfiteatro, dove le scene sono autentiche; si potrebbe, volendo, sfiorare i protagonisti… Mann, col suo stile limpido e raffinato, può compiere questi ‘transfert’ psicologici sul lettore che si lascia avvincere e condurre lungo le strade dell’estro narrativo; punti cardinali del suo genio artistico. La Montagna dell’autore tedesco che apre tutti gli accessi alle prospettive del sapere umano – io l’ho vissuta come esperienza culturale di grande ampiezza; tribuna d’eccellenza nella quale emerge il saper essere di un grande scrittore, un fuoriclasse nelle avanguardie letterarie d’ogni tempo. Quando si chiude il libro, dopo aver percorso trafelati, quelle avventure di pensiero, sembra d’avvertire interiormente, un effluvio di suoni, voci ancora riposte, echi non lontani, che si elevano in contralti. incantata – ma non è l’unica opera
In quella ‘congerie’ di strumenti narrativi, riconosceresti la voce dei personaggi; ormai sono ombre che respirano e avvolgono, sulla scena alla quale si è appena assistito, mentre con discrezione, e quasi furtivamente, cala un sipario trasparente… Allora sopravviene un susseguirsi di memoria, scansione con fattezze reali, pur con le sue fughe, o contrappunti letterari, che mettono in risalto la padronanza del linguaggio e dello stile, capacità espressiva di modulare i toni del raccontare schietto; ovvero l’abilità di uno scandaglio impietoso sulle retrovie dell’animo umano, portando in luce gli angoli oscuri, convessi, d’ogni tentativo d’evasione. La Montagna incantata – anche se personalmente ritengo che il capolavoro di Mann sia ‘Doctor Faustus’ – è tuttavia un caposaldo di virtuosismi letterari, dove l’arte del narrare, sfiora ogni vertice, raggiunge sommità che è difficile abbandonare a pulpiti d’opinione in cui trova spazio la critica dissacrante verso questo autore, la cui prima impressione è di carattere soggettivo e personale. L’impressione è che egli sia stato da sempre un uomo libero interiormente, con grandi angoli in vista che si aprono in vastità d’esperienze e doti intellettive naturali, fertilizzate dall’ampiezza culturale acquisita: vasto spettro di conoscenza in ogni ambito del sapere. L’eclettismo culturale gli ha permesso di tenere salde le redini di un’opera, qual è ‘La Montagna incantata’, che tende a dirigersi in ogni fronte aperto delle discipline umane, attraverso le voci dei personaggi, alle prese con le loro diatribe di carattere sociale, storico-politiche, religiose, le quali, non di rado, finiscono in requisitorie morali, confronti e affronti dialettici contrapposti, dove scorre il filo conduttore della passione verso un ideale, un credo mistico o profano. Da perfetto equilibrista qual è, Mann, domina la scena narrativa da un versante neutro, esterno; riesce a moderare gli interventi, a placare gli animi incandescenti, a modulare l’azione. In altri versanti si sorprende passivo, un semplice veggente che racconta ciò che vede e altro non azzarda, perché gli eventi non consentono di correggere errori di sintassi sul destino, e i personaggi sono diretti da un volere inesorabile, quasi occulto, comunque impossibilitati al soccorso o a una fuga rocambolesca dalla realtà. Egli giunge per gradi all’epilogo drammatico; sembra di percepire la sua impotenza mentre conduce, per esempio,
i due personaggi più contradditori, dall’opposizione verbale, all’affronto che s’infiamma in toni accesi e intransigenza. Nell’orgoglio delle proprie convinzioni, difese con finissimi stratagemmi retorici, c’è l’inflessibile intento di non cedere ad alcun compromesso d’opinione o apostasia di credo, finché la passione, nei dibattiti di tipo religioso, politico o sociale, intreccia un serpeggiante contrasto che sfiora l’istigazione, il parossismo e l’azzardo, nel colpire l’altro con strategie vessatorie che condurranno entrambi – accenno a Settembrini e Naphta – in un campo di sfida, prima sul fronte verbale, poi fisico. In un duello, al quale parteciperanno impotenti alcuni ospiti del sanatorio, uno dei due personaggi perderà la vita per conservare integro l’onore delle proprie convinzioni, ovvero la sua visione del mondo. Thomas Mann appare davvero passivo mentre assiste a questo ripiego d’avvenimenti inconsulti, costruiti ormai con la perizia di un maestro, che sa entrare in punta di piedi nei labirinti delle relazioni umane, teatro in cui l’assurdo corre sul filo del dramma, e ne dirige la rappresentazione con interventi misurati e discreti – non sapremo mai attraverso quale voce egli s’insinua nei dibattiti e in tutto quel fervore culturale – affinché niente sconvolga la coerenza della vita, dove la remissione del dolore non è atto previsto. In definitiva è il regista di quel convulso proliferare di scene, ed egli ama celarsi dietro le quinte di quel raffinato palcoscenico, nel quale protagonista indiscussa resta comunque la cultura con i suoi sterminati orizzonti. L’autore ama le irruzioni nei costumi del quotidiano, per rendere concreta la parafrasi della realtà e la sua parabola, dileguandosi senza tuttavia abbandonare il suo ruolo di ‘cronista’ delle vicissitudini umane. Egli dimostra, senza ricorsi ad alchimie narrative, che i contenuti e l’efficacia espressiva, sono strumenti impliciti nella miniera dell’Estro, allorché si sappiano impiegare magistralmente in un’opera d’arte. ‘La Montagna incantata’ potrebbe anche configurarsi – ben inteso allegoricamente – per l’alto valore culturale dei temi trattati – come una serie di conferenze itineranti, in cui quasi tutte le discipline umane, dalla medicina alla musica, dalla psicologia alle materie umanistiche, sono degnamente rappresentate e svolte con competenza e professionalità. Anche i toni non proprio accademici dei personaggi coinvolti nelle dispute appassionate, che non risparmiano accenti ironici, non sembrano risentire dei limiti che la struttura sanitaria impone a ciascuno, evidenziando il contatto sempre diretto con le attrattive della vita e l’attaccamento ai suoi postulati più importanti. Il sanatorio Svizzero, non impone rigori o protocolli pesanti per i degenti costretti a trascorrervi mesi e anche anni, assenza dal reale teatro dell’esistenza, proprio perché il presidio sanitario è consapevole della severa disciplina che la malattia stessa impone.
L’ambiente è descritto con minuzia di particolari, e il lettore ha talvolta l’impressione di assistere a scene del quotidiano in un albergo di lusso. La morte, ‘musa’ sibillina di quel male oscuro, pure presente, aleggia intorno ai protagonisti, non come contingenza o minaccia incombente, che distoglie e angoscia tra i ritmi che vi si svolgono, ma come elemento aleatorio già disposto, nell’ordine della probabile appendice che potrebbe avere il male di cui sono affetti. Si respira un clima di libertà nell’organizzazione della giornata; anche l’esito favorevole della prognosi, sembra delega del possibile nell’arbitrio degli ospiti del sanatorio. Sarà proprio questo estremo potere di scelta sul proprio stato di salute, a determinare la morte di un altro personaggio, il quale non più in grado di dominare l’impulso d’indossare la divisa e rientrare nel rango dell’esercito, malgrado i sintomi ancora presenti della patologia polmonare, perderà la sua battaglia proprio negli avamposti della vita. Sarà il suo conto in perdita nelle risorse della salute, a ricondurlo bene presto nel sanatorio, vinto dall’inesorabile recrudescenza del male e la sua subdola tendenza alla recidiva.
All’ombra dei problemi derivanti dalla malattia, emergono anche dibattiti su problematiche religiose e teologiche, dissertazioni su etica e valori cristiani, nonché analisi sull’affascinante mistero del dogma, analizzati con l’acume e la sagacia di profonde conoscenze bibliche. Senza dimenticare il talento dialettico del personaggio di turno, al quale Mann porge il suo ‘microfono’. Ogni volta la conclusione rimbalza sulla capacità di critica del lettore, al quale consegna il ruolo di arbitro in quelle ampie vedute sul tema discusso, specie se d’ordine morale. Sembra che Mann, nei suoi lunghi ‘trattati’, non voglia decidere a chi affidare il privilegio della verità più asettica; questo elemento d’analisi resta sempre, anche nell’ardimento e improntitudine dei personaggi, un’equazione irrisolta. Le incognite emergono nei vaghi commenti di qualche comparsa, che interviene solo con cautela, per comprendere meglio le oscillazioni della ragione pura, espressa con la magniloquenza di chi, del valore cultura, ne ha fatto una vocazione. L’audacia di questi personaggi, riflette altresì sicurezza sulle varie diramazioni del confronto, che sfiora l’arringa, cosicché l’esito resta indefinito, e, come osservavo prima, sembra che l’ultima parola, o il ‘giudizio’, sia affidato proprio al lettore.
Thomas Mann, aveva già rivelato ne ‘I Buddenbrook’, saga familiare d’evidente orientamento autobiografico, la sua vocazione artistica, anche se, quando prese carta e penna per affidare a critici e lettori, il passato e la decadenza di una famiglia aristocratica, residente in una cittadina anseatica e dedita al commercio – quasi una favola di Andersen – non presentiva un futuro così brillante nella strada della Letteratura Europea. Aveva iniziato a lavorare al romanzo in Italia, in un piccolo albergo di Palestrina, lui fine intenditore di musica classica, iniziò così la sua carriera artistica, certo con ottimi auspici. Il fenomeno Mann si consolidò poi con ‘La morte a Venezia’, dove il talento d’introdursi nei sotterranei della psiche umana, emerge col coraggio e l’intraprendenza di un autore che non si accontenta di un prospetto di superficie, ma va oltre la dissociazione del vizio, le sue seduzioni, dopo essersi soffermato a illuminarne i ghetti con disincanto, e a riprodurne i riflessi in un animo pressoché asservito alla perversione morale. Ciò che rimane impresso, oltre all’alto livello dei temi trattati, è anche quel suo sapersi destreggiare nelle prove più estenuanti e indeterminate delle vicende umane. La bellezza e l’eleganza delle sue doti espressive, l’implacabile intento di portare alla luce il ‘culto’ delle imperfezioni, anche negli esseri eletti dell’arte, esorcizzando così i suoi stessi intimi conflitti e le tendenze trasgressive, rivela caratteristiche sommerse nell’inconscio, descritte con crudo realismo, così come i travagli e le reminescenze, fino al capolinea del dramma. Solo un autore che ha avuto il privilegio di un’eredità vincolata all’arte autentica del raccontare, può permettersi queste escursioni nelle debolezze umane più contorte, che sovente sono come larve allo stato di latenza, ed emergono poi prepotentemente, allorché le difese psicologiche sono compromesse dalla scelta di una vita dissoluta, non conforme all’ordine sociale e ai suoi prototipi; al di là dell’inconscio collettivo. L’Arte tuttavia, quando raggiunge vertici così alti, sa essere indulgente e magnanima con chi ha saputo elevarla oltre ogni indegnità, riscattando così se stessa e l’artista, sempre docile strumento della sua gloria.

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REDAZIONE “LA NOSTRA ISOLA”

RESPONSABILE DI ZONA
BRUNO MANCINI

GIORNALISTI:
ROBERTA PANIZZA

ANTONIO MENCARINI

VIRGINIA MURRU

NUNZIA BINETTI

FULVIA MARCONI

ROSALBA GRELLA

KATIA MASSARO

MARIA CALISE

Nicola Pantalone

Musicista e  voce recitante del progetto

“La nostra Isola”

Antologie Poetiche a cura di Roberta Panizza

Ischia è sempre stata un riferimento per Nicola Pantalone, più volte, per ragioni di lavoro o impegni riguardanti la sua attività artistica, si è allontanato dall’isola, anche per lunghi periodi, ma è sempre rientrato, sia pure brevemente, nel luogo in cui ha trascorso i primi due decenni della sua esistenza.

Ora da tanti anni vi risiede stabilmente, e basta ascoltarlo per comprendere cosa abbia rappresentato per lui Ischia. Si respira nelle sue parole l’orgoglio d’essere Ischitano..

 

Nicola, amando l’Arte in tutte le sue manifestazioni, ha aderito con entusiasmo al progetto culturale “La nostra isola” fin dal momento iniziale della sua fondazione decidendo di partecipare attivamente  alle iniziative promosse dai pionieri, in particolare Bruno Mancini e Roberta Panizza, e così, nel corso di numerose manifestazioni ha letto alcuni testi poetici degli autori facenti parte delle Antologie, ritrovandosi in perfetta sintonia con il gruppo,

 

Un modo per rapportarsi con il mondo della poesia in maniera semplice e spontanea; chi ama la musica comprende il ritmo intrinseco delle parole, l’impatto fonetico che richiama in qualche modo un pentagramma di suoni, naturalmente.

Noi siamo orgogliosi di averlo tra noi, e siamo certi che la costante fattiva collaborazione potrà solo arricchire il prospetto culturale e la programmazione di ogni futuro progetto. 

Nicola Pantalone

“La musica è stata la discreta e fedele compagna di tutta la mia esistenza, una musa intrigante, che mi ha coinvolto col suo idillio fin dall’adolescenza. Io credo sia stata lei a trovarmi, una passione quando è così forte, riesce ad avere ragione anche delle montagne che si presentano sotto le sembianze d’incertezze, timori. Così sono riuscito ad andare oltre il muro delle riserve e a mettere al rogo ogni paura che mi rendeva esitante e insicuro nelle mie scelte, prendendo semplicemente atto delle mie inclinazioni.”

Così esordisce Nicola Pantalone, musicista ischitano che si è lasciato travolgere dalla musica seguendo la sua inclinazione anche nei momenti meno favorevoli della vita. Le prime note risalgono all’epoca in cui aveva solo 16 anni; con alcuni amici fondò un gruppo ad Ischia nel quale svolse il ruolo di batterista.

Nicola Pantalone, alla batteria, suona per Mina con il suo complesso “I diavoli”

Lo strumento era congeniale al suo desiderio di abbattere la cortina d’introversione e riservatezza; il suo essere schivo lo induceva infatti a blindare le porte di un animo piuttosto chiuso.

Seguire il richiamo della musica era stato come aprire la porta di quel sé riottoso, e consegnare la chiave.

Il passaggio fu forse conflittuale, ma la passione, come un benevolo Caronte, riuscì a condurlo nell’altra sponda, esorcizzando lentamente gli angoli oscuri di una personalità ancora in via di formazione. Si trattava delle prime esperienze, ed egli sostiene d’essersi avvalso del supporto del pubblico che ascoltava con interesse le esibizioni del gruppo, musicisti imberbi come lui. In definitiva egli ritiene che questo primo tracciato sia stato simile ad un solco che ha delineato le fondamenta di tutta la sua attività artistica.

Nicola Pantalone al centro tra Bruno Mancini (alla sua destra), il chitarrista Enrico Roja (alla sua sinistra) e Franco Esposito accovacciato   

 

“Non puoi essere musicista senza il supporto delle persone che ti stanno intorno – sostiene Nicola – neppure ai massimi livelli.”

In seguito, ancora giovanissimo, fu ingaggiato da un gruppo musicale di Procida, in qualità di chitarrista, e fu un ulteriore passo avanti in termini di esperienza, continuò in gruppo  fino al ’68. Poi proseguì da solo, esibendosi in tavernette, proponendo le più famose canzoni napoletane dell’epoca, come ‘O surdato innamorato  e altre in voga in quegli anni.

Finché prese atto che tra il pubblico c’erano tanti turisti tedeschi, i quali privilegiavano lo Swing americano, e pertanto Sinatra entrò nel suo repertorio in maniera naturale, si trattò solo d’interpretare i gusti e le richieste del pubblico che ogni sera si assiepava davanti a lui.

Dopo alcuni anni si trasferì a Milano, durante il giorno lavorava per una casa editrice, mentre la sera suonava la chitarra in qualche locale della città.

Nicola racconta che una sera si trovava a Bergamo e doveva rientrare a Milano per un appuntamento in Piazza Fontana, arrivò in ritardo… e fu solo un misterioso atto di grazia del destino, il quale, per ragioni che non ci competono, agisce sempre a nostra insaputa e decide il corso degli eventi. Grazie a quel ritardo si salvò dalla strage, avvenuta proprio in quelle ore, ossia quando Nicola avrebbe dovuto essere presente.

Ogni parola in queste circostanze diventa inopportuna, retorica direi.

A Milano s’impegnò in un progetto che non andò a buon fine, l’intento era quello di formare una società di marketing, che avrebbe dovuto vendere articoli per corrispondenza, ma il periodo non fu particolarmente favorevole per iniziative economiche di quel genere.

Decise pertanto di rientrare ad Ischia. Nell’isola firmò un impegno con l’hotel Excelsior, per suonare durante l’estate. Arrivò in quei mesi anche il risultato di un colloquio svoltosi mesi prima a Milano, per un lavoro di tipo amministrativo. Fu così informato di essere stato assunto in qualità di direttore amministrativo de “Il piccolo teatro di Milano”.

Nicola Pantalone e Pippo Baudo

 

Declinò l’incarico.

“E il bello è che non  mi sono mai pentito” – aggiunge Nicola.

Aveva già firmato un impegno con l’Excelsior ed egli si considera per natura uomo leale, così continuò a suonare nell’isola senza tanti patemi d’animo. Frattanto nel ’71 si sposò, e l’anno seguente nacque il primo figlio.

La sua attività di musicista lo portò proprio nel corso di quei mesi a Monaco di Baviera; suonava la chitarra in un locale dalle nove di sera fino alle tre del mattino, senza microfono o altri supporti  tecnici. Era tuttavia ben retribuito e si muoveva in taxi per ogni esigenza, cominciando intanto ad apprendere i primi rudimenti della lingua tedesca.

La sera andava ad ascoltarlo un signore distinto e attento alla musica che suonava. Un giorno gli chiese di fargli visita, non sospettava chi fosse e quale attività svolgesse. Si chiamava Bert Grund, ed era direttore nell’orchestra classica della Radio Nazionale Bavarese..

Nicola rimase interdetto, certo sorpreso. Lo condusse nella cabina di regia, mentre si svolgevano delle registrazioni. A questo punto pensò che il tedesco lo stesse mettendo in qualche modo a disagio e gli chiese: “Senti.. perché mi hai condotto qui?”

E quegli rispose con aria irreprensibile: “Vedi… questi musicisti non sbaglierebbero una nota, e sono sinergicamente perfetti, io vengo ad ascoltarti per sentire il colore della tua musica…”

Da restare senza uno spicciolo in tasca! Con una semplice sinestesia gli aveva lasciato intendere che la sua chitarra produceva suoni solari, che poi hanno sempre affascinato i tedeschi.

Propose a Nicola la registrazione di qualche pezzo musicale, ed egli pensò alle commedie dei De Filippo, a quella musica tutta partenopea.

Stava entrando a far parte di un contesto artistico serio e importante, volle dunque condividere quel momento con la moglie. Dopo la telefonata si ritrovò in una frontiera, sul limite di una scelta che condizionò gli sviluppi di un incontro forse decisivo per la sua carriera artistica.

La moglie lo obbligò a scegliere: la famiglia o la musica. “Quelle due” si guardavano “in cagnesco”, una era di troppo all’altra. E così Nicola scelse la famiglia, aveva un figlio di soli 7 mesi e sentì in quel momento tutta la responsabilità di un bambino da crescere.

Tornò ancora ad Ischia, malgrado i rimpianti. Poco dopo partecipò ad un concorso a Milano, di tipo amministrativo, e lo vinse. Fu destinato a Como, città nella quale risiedette con la famiglia per circa 15 anni. Non gratificato dall’attività burocratica dell’ufficio, continuava imperterrito a suonare in qualche locale, per dimenticare lo squallore delle giornate “costrette” in una stanza grigia, senza prospettive.

Si sentiva in un limbo, talora in catene, era insomma un sistema di vita che non apparteneva alla sua indole libera e agli orientamenti che intendeva dare al futuro. Il maestro di musica incontrato a Monaco lo rintracciò e gli propose di suonare in qualche locale della Svizzera, e così cominciò a suonare a Lugano e dintorni, cercando di conciliare impegni musicali e famiglia, con orari quasi impossibili da gestire, ma la musica chiamava, ed egli le aveva giurato tacita fedeltà anche nell’impossibile.

Suonò in quegli anni ad Amburgo, Losanna, Montreux, Zurigo.

I figli erano cresciuti, ne aveva due ormai, e studiavano con risultati brillanti, rendendo orgoglioso Nicola e incentivando il suo desiderio di offrire loro il meglio.

Un giorno – racconta – venne mio figlio dalla Bocconi a trovarmi in Svizzera, vide la suite dell’albergo in cui mi trovavo e  ne fu alquanto colpito. “Mi chiedo come fai poi a tornare alla normalità, papà, con la semplicità che conosciamo…” Nicola non ha dimenticato, e oggi che i figli dopo i loro studi si sono realizzati nel lavoro (uno è diventato fotografo di successo, sempre in giro per il mondo, e l’altro dirigente d’azienda), ne sorride.

Dopo la sua frenetica attività musicale in tante città Europee, risolse di rientrare ancora una volta, definitivamente, ad Ischia con la famiglia. Decisivo fu un incidente che poteva avere conseguenze tragiche, ma rimase incolume, e tuttavia con una coscienza più razionale. La sua vita era stata al limite delle risorse fisiche e psicologiche, la passione per la musica bruciava ogni istanza della ragione, del buon senso, ma lasciava il suo entusiasmo immune, incombusto.

Sono questi i momenti in cui si rischia di perdere le redini di se stessi.

D – Nicola, cosa ha rappresentato la musica nel corso della tua esistenza, prova a dirlo in una frase.

R – La musica è stata la luce della mia esistenza.

D – Se dovessi esprimere un parere su chi ha meglio interpretato te stesso.. la vita o la musica… cosa risponderesti?

R – La musica è stata la colonna sonora della mia vita, se dovessi fare un resoconto,        direi che il disavanzo è stato sempre positivo; ogni esistenza ha la sua partita doppia, io in fin dei conti ho un animo inesorabilmente romantico, per non perdere nessuno dei valori ai quali ho sempre tenuto, ho cercato di ‘raggirare’ il destino tenendo il piede in più staffe, preservando la famiglia e non rinunciando mai alla musica. Oggi il bilancio è sempre attivo, e dietro le  spalle ho una strada con pochi sassi, ossia rimpianti, che tormentano la mia memoria.

Virginia Murru

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