Omaggio a Jacques de Molay

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Nota introduttiva dell’autore

Il 27 gennaio di ogni anno si celebra il “Giorno della memoria” dell’Olocausto, mentre il 10 febbraio di ogni anno si celebra il “Giorno della memoria” delle Foibe, “per non dimenticare”! E allora, perché non istituire un “Giorno della memoria” del Martirio dei Templari, “per non dimenticare”? E quale più consono giorno potrebbe essere se non il 18 marzo, ovvero il giorno (1314) del martirio sul rogo del Martire Templare per antonomasia, ovvero del Gran Maestro Jacques de Molay? Questo breve saggio storico tende proprio a questo, ovvero a mantenere vivo il ricordo del Martirio Templare. Tuttavia, il saggio non indugia sulla figura storica dei Templari, bensì su quella di Ugo Capeto, capostipite della Dinastia Capetingia e su quella del suo tardo successore, Filippo IV “Il Bello”, ovvero sul carnefice dei Templari. Ugo Capeto viene coinvolto, scomodando Dante Alighieri, poiché fondò la Dinastia Capetingia sulla base della violenza, dell’usurpazione del trono e della corruzione, che utilizzò per accattivarsi i favori necessari all’ascesa. Tutto ciò vuole significare che l’ascesa al trono di Filippo IV era già illegalmente e proditoriamente viziata a monte, ovvero alle origini dinastiche. Riferimenti vengono fatti alla decadenza della società francese durante il Regno di Filippo IV. Viene altresì riportata un’epigrafica monografia sull’Ordine Templare. Il saggio si conclude con una massima di saggezza, vergente a enfatizzare la nefandezza e l’orripilanza interiori del Bel Sovrano di Francia.
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Struttura del saggio:
I Capetingi
Ugo Capeto (987-996)
Ugo Capeto nel Purgatorio-Canto XX
Filippo IV di Francia
La Francia durante il Regno di Filippo IV Il Bello
Templari
“Omnia mea mecum porto”
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I Capetingi

Genealogia reale francese che, fraudolentemente, succedette ai Carolingi, succeduti ai Merovingi, sul trono di Francia. Mutuò l’appellativo da Ugo Capeto (così soprannominato a causa del piccolo mantello con cappuccio, in francese “cape”, che era solito indossare), Monarca di Francia nella fase conclusiva del secolo decimo, proclamato Re a Noyon, il 3 luglio 987. Dante lo citò nel “Purgatorio” con il nome di “Ugo Ciapetta”. A Ugo Capeto seguirono sul trono, in linea retta, per finire con Carlo IV Il Bello, deceduto nel 1328, quattordici Monarchi. Partendo dal fulcro primigenio della loro potenza, l’Ile-de-France, ebbero il nefando magistero, progressivamente, usurpando e prevaricando su un cospicuo numero di nobili, principi e sovrani dell’epoca, di allargare il loro influsso su porzioni sempre più vaste della regione francese (precipuamente nel sud della Francia, a grave danno dei regni formatisi con lo sfaldamento dell’Impero Carolingio) e di organizzare aggressioni esterne a quest’area. Nondimeno, al di là della conquista di ulteriori territori, l’operato dei Capetingi si identificò nella strutturazione della monarchia francese, che essi corroborarono e consolidarono, …

(in questa logica essi potenziarono cospicuamente l’autorità regia in Francia, dogmatizzando i principi di ereditarietà maschile della successione al trono, di primogenitura e d’indivisibilità dei territori del regno)

…non soltanto militarmente e fiscalmente, ma pure e, soprattutto, nella direzione di un’ideologia fortemente autocratica e cinicamente negligente dei diritti altrui. I Capetingi furono, invero, i più tetragoni fautori del concetto d’intangibilità del potere monarchico e dell’immedesimazione della nazione con il suo stesso monarca. I Capetingi, pressoché arrogandosi diritti teocratici, ascrissero al loro potere uno stigma ierocratico, compendiato nei motti: “Re Cristianissmo” o “Per Grazia di Dio” (sec. XIV). A partire dal XII secolo, postularono l’assunto del “Re Imperatore nel suo Regno”, assunto che rappresentò la “condicio sine qua non” ideologica per l’evoluzione di una monolitica monarchia nazionale. Le numerose propaggini della famiglia e il sistema degli utilitaristici e subdoli “Matrimoni di Stato”, permise ai Capetingi di allogare, su vari troni europei, epigoni…

(Angiò, Borgogna, Borbone, Condé, Longueville, Orléans, Valois)

…del proprio Casato, epigoni con i quali, tra l’altro, si trovarono sovente in forte attrito. I Capetingi giunsero fino all’Impero di Costantinopoli. Ai Capetingi, per via indiretta, succedettero prima i Valois e poi i Borbone.

Molte fonti e tradizioni storiografiche parlano di “cupidigia” della stirpe capetingia e, soprattutto, degli ultimi rappresentanti. Una virulenta sferzata alla politica della Dinastia Capetingia fu data da Luigi VI (1108-1137), il quale ricusò qualsiasi dialettica con il sistema feudale, anzi soffocandone con la violenza qualsiasi opposizione, con selvaggio spirito e brutale astuzia. A far seguito dall’assimilazione della Provenza, arrecata come dote nel 1245 da Beatrice a Carlo D’Angiò, il quale la unì al Regno di Napoli, cominciarono una sequela di annessioni, ottenute con le armi o con l’imbroglio, nella logica di una fausta, ma bieca strategia di unificazione interna e di dilatazione esterna. Alle inique e fraudolente annessioni si addizionarono ulteriori crimini tra cui, molto importanti: la condanna a morte di Corradino di Svevia, l’assassinio di San Tommaso D’Aquino, lo “Schiaffo di Anagni”, lo scioglimento dell’Ordine dei Templari. Episodi, questi, tutti ripetutamente rammentati e citati da Dante.
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Ugo Capeto (987-996)

Deceduto Lodovico V, ultimo Re Carolingio (967-987), Ugo Capeto, con denaro e corruzione, si procurò consenso dispensando terre ai suoi elettori. Sebbene la Nobiltà Francese non fosse, in un primo momento, intenzionata a sostenere la creazione di una dinastia capetingia, Ugo si valse a imporre la sua autorità e a far incoronare co – reggente suo figlio, Roberto II. I Capetingi si garantirono, in questo modo, la successione alla corona, per discendenza maschile, per più di tre secoli (987-1328), ovvero per diritto ereditario e non per diritto di elezione. Iniziò così una serie ininterrotta di Re appartenenti alla medesima genealogia. Quando Ugo Capeto fu eletto, a Senlis, dall’Assemblea dei prezzolati Feudatari, l’Arcivescovo di Reims, Adalbertone, che presenziò e avallò, sanzionò palesemente che la Corona di Francia era elettiva, come in Germania. Tuttavia, mentre in Germania rimase elettiva, in Francia i Capetingi procurarono ben presto l’insorgere del principio che il Re “non muore” e che il suo potere passa “ipso iure” al figlio. Dante Alighieri asserisce che Lodovico V fu “renduto in panni bigi” (Pg. XX, 54), ovvero che l’ultimo dei “li regi antichi”, ovvero dei Carolingi, fu costretto coattivamente a ritirarsi nella clausura di un chiostro. In altri termini “fu fatto prigioniero”. Altresì Dante fa risalire Ugo Capeto a un’umile origine e asserisce che era figlio di un ricchissimo mercante di bestiame, i cui soldi servirono a corrompere i feudatari e a comprare il loro appoggio. De facto, Dante accusa Ugo Capeto (che nella Divina Commedia colloca, disteso bocconi e legato, nel V Girone, ovvero tra i prodighi e gli avari) di usurpare il trono: “Figliuol fu’ io d’un beccaio di Parigi” (Pg. XX, 52). Tuttavia, non lo condanna tanto per aver usurpato il trono, quanto per aver dato origine a una dinastia scellerata.
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Ugo Capeto nel Purgatorio
Canto XX

Sollecitato da Papa Adriano V (dei Fieschi), molto cautamente, Dante, pressoché sulla punta dei piedi, transita per il quinto terrazzamento della montagna, facendo attenzione a non pigiare l’umano manto dei prodighi e degli avari (bocconi a terra e legati), allorché il grido di una larva, mescolato tra i singulti, lo induce ad arrestare il suo incedere. Versa lacrime amare quella larva, finora anonima, che adesso, ancor più singultando, proferisce due paradigmi della virtù antitetica al suo vizio. Quel grido, quella voce, dopo aver verbalmente e severamente attaccato il peccato capitale dell’avarizia, origine di tanta iniquità, rammenta, ancor piangendo, tre esempi, due di povertà e uno di generosità, ovvero: quello di Maria che diede alla luce Gesù, quello del Console Romano Fabrizio che non si lasciò corrompere dalle ricchezze offerte dal nemico e quello di San Nicola, Vescovo di Bari, che salvò tre fanciulle dal meretricio. Dante, quindi, si rivolge alla sconosciuta anima, per conoscerla. Quel grido, quella implorazione altro non sono che l’impetrazione patetica di Ugo Capeto, progenitore della genealogia dei Reali di Francia, che costituisce l’incipit del canto XX del Purgatorio. Quindi il dolore si frammischia alla collera, man mano che il “proto – capetingio” enuclea le fasi trucemente salienti della sua bieca schiatta, che egli stesso, con una requisitoria, condanna per la brama di potere e di ricchezza, per la frode e la violenza, per la prevaricazione realizzate. Ugo Capeto cita quindi Carlo D’Angiò (che provocò la morte di Corradino di Svevia e di San Tommaso D’Aquino), Carlo di Valois (che ebbe un ruolo topico nel fomentare l’uso delle armi e l’anarchia in Firenze), Carlo II D’Angiò (che mandò in moglie l’ancor giovanissima figlia Beatrice ad Azzo VIII D’Este, in cambio di una somma di denaro), arrivando a Filippo Il Bello, mandante del delitto di “lesa maestà” nei confronti di Papa Bonifacio VIII (fatto ascritto negli annali di Storia come “Lo schiaffo di Anagni”), nonché mandante dell’efferato delitto di persecuzione e scioglimento dell’Ordine dei Templari. Il biasimo per la violenza e l’avidità che Ugo Capeto indirizza al suo postero e successore Filippo IV, è, ovviamente, musica per le orecchie del fiorentin, nel Purgatorio, itinerante Vate. Ugo Capeto si rivolge ancora a Dante, dicendogli che le anime dei prodighi e degli avari recitano di giorno esempi di povertà e di generosità e di notte, invece, ricordano personaggi che sono stati negativamente famosi a causa di prodigalità e avarizia: Crasso, Polimestere, Pigmalione, Mida, Acan, Anania, Satira, Eliodoro…
Dante e la sua guida, Virgilio, si son or ora allontanati da Ugo Capeto, allorché il primo ode:
“come cosa che cada/tremar lo monte; onde mi prese un gelo/qual prender suol colui ch’a morte vada”
La montagna del Purgatorio è quindi violentemente scrollata da un sisma, intanto che le anime di tutte le cornici intonano in coro “Gloria in excelsis Deo”. I due poeti si bloccano e restano immobili e sospesi. Quindi riprendono la loro marcia. Dante vorrebbe sapere il perché di quel terremoto, ma non ha l’ardire di domandarlo a Virgilio. Più tardi saprà che un’anima ha finito di espiare in Purgatorio ed è ascesa al Paradiso. Vale a dire che il fenomeno si ripete ogni volta che quest’ultimo evento si verifica.
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Filippo IV di Francia
(Filippo Il Bello “Le Bel” “Capeto”)
(Fontainebleau, 1268-Fontainebleau, 29 novembre 1314)

Filippo salì al trono di Francia a 17 anni, alla morte del padre, nel 1285 e regnò fino alla sua morte. Rampollo della genealogia dei Capetingi, Filippo vide i propri natali nel Palazzo di Fontainebleau. Nipote di Luigi IX, figlio del Re Filippo III L’Ardito (o “L’Audace”) e d’Isabella D’Aragona. Fratello di Carlo di Valois. Filippo fu soprannominato “Il Bello” per il suo avvenente aspetto. Regio enfant gaté, già nella sua adolescenza manifestò cospicui prodromi di crudeltà, egoismo e cinismo. Come Re, Filippo, consacrò una larga porzione della sua esistenza a un’azione di assestamento e di potenziamento della monarchia, che lo portò ad avviare un’opinabile e controversa struttura burocratica, che defilava, invero, una vigorosa, tetragona e adamantina autocrazia. Un anno prima di ascendere al trono, Filippo sposò Giovanna I, Regina di Navarra. Era il 16 agosto 1284. Connubio, questo, estremamente topico in ambito territoriale, considerando che Giovanna, tra l’altro, era pure Contessa di, ovvero regnava anche su Champagne e Brie, regioni contigue all’Ile-de-France, che si fusero ai possedimenti del Capetingio Monarca, con il risultato di un immenso regno. Filippo, con spregiudicato e individualistico utilitarismo, dilatò in questo modo, rapidamente, a dismisura e gratuitamente, i domini capetingi. Filippo assunse allora il titolo di Re di Francia e di Navarra, fino al 1304, anno in cui Giovanna morì. Da Giovanna ebbe quattro figli: Isabella (la “Lupa di Francia”), Luigi X (Il Litigioso), Filippo V (Il Lungo) e Carlo IV (Il Bello). Il Regno di Francia era, all’epoca dell’ascesa al trono di Filippo IV, assai prospero e vi abitava un terzo della Cristianità Latina, ovvero dai 13 ai 15 milioni di persone. Il novello Re, coadiuvato da un entourage di mentori esperti di diritto (i giuristi), fu il primo sovrano moderno di uno Stato forte e centralizzato. Nondimeno, diverse riforme fallirono. Nell’utopia di controllare il proprio Regno nella sua vastità, il Re non fu capace di gestire con equilibrio le imposte dirette e/o di riorganizzare un’amministrazione ben funzionante. Già nel 1285, vale a dire non appena salì al trono, Filippo si prodigò nella lacerante ed esosa guerra contro l’Aragona (conflitto che aveva prodotto la morte del padre, nel 1291), in sostegno degli Angioini dell’Italia Meridionale, pesantemente e pericolosamente coinvolti nella “Guerra del Vespro” (1282-1303). Il conflitto contro gli Aragonesi si protrasse per un decennio e terminò con il Trattato di Anagni (1295), in virtù dell’imprescindibile e determinante azione diplomatica di Papa Bonifacio VIII. Nel triennio 1294-1296, Filippo occupò con le armi, ovvero violandone i diritti territoriali, la Guienna o “Guyenne” (una delle precipue ragioni di frizione con Edoardo I d’Inghilterra), il Barrois, Lion Viviers. Nel 1296, avendo già inferto un duro colpo agli Ebrei per far fibrillare e per tonificare la languente economia francese, in una congiuntura negativa per il rinnovamento politico delle strutture del regno e avendo istanza di capitali per la guerra contro Edoardo I, Filippo deliberò, unilateralmente e monocraticamente, l’imposizione di una tassa straordinaria, anche al Clero, ovvero ingiunse un contributo alla Chiesa francese, provocando, così, una prima diatriba con Roma, esulceratasi nel 1301, per l’arrogazione del diritto di giudicare un Vescovo. (*01)

Il 25 febbraio 1296, Papa Bonifacio VIII replicò alla decisione di Filippo con la bolla“ Clericis laicos”. Con questa bolla il Papa inibì al Clero francese di erogare tasse al Sovrano, ovvero a un’istituzione laica, senza il previo placet pontificio. La bolla reiterava, vieppiù, l’egemonia del potere spirituale su quello temporale e contemplava scomuniche per quei laici che, d’ufficio e coattivamente, avessero reclamato dal Clero l’esazione d’indebite imposte. Di fatto, la ricusazione del Clero di Aquitania a qualsivoglia metodo di contribuzione a favore della guerra contro gli Inglesi, diede l’aire al conflitto contro il Papato. Il 17 agosto 1296, Filippo precluse ogni invio di oro e di argento verso Roma, ovvero verso lo Stato della Chiesa. In un primo momento Papa Bonifacio controbatté con la bolla “Ineffabilis amoris”, quindi, paventando rappresaglie, nel 1297, la revocò. Non meno critico, prostrante ed esoso della “Guerra Aragonese”, fu l’attrito con Edoardo I d’Inghilterra (alleato dei Conti di Fiandra), che raggiunse il parossismo, ovvero divenne conflitto aperto nel 1294. Questo conflitto vide il proprio epilogo nel 1298, per virtù dell’intercessione spirituale di Papa Bonifacio VIII (Trattato di Montreuil 1299, siglato da Filippo Il Bello e da Guy, Conte di Fiandra). Nel corso di questa guerra, nel 1297, per castigare i Dampierre (*02), …

(*02) Famiglia francese che ebbe tra i suoi maggiori esponenti GUY (1225-1305), Conte di Fiandra, che combatté contro Filippo Il Bello (da quest’ultimo proditoriamente e abiettamente attirato in trappola a Parigi nel 1300, dopo la firma del Trattato di Montreuil, imprigionato, esautorato e sostituito da un governatore d nomina reale), sostenuto da Edoardo I d’Inghilterra. Guy, con il bieco inganno, fu sopraffatto e i suoi possedimenti furono coattamente e illegalmente fagocitati dall’avida Corona francese, sia pure per un esiguo lasso di tempo.

…alleati di Edoardo I, il Bel Capeto invase le Fiandre, occupandole e usurpandole con inquietanti prepotenze, nonché con asprissimi e vergognosissimi abusi di potere, il che egli continuò a fare anche altrove, al fine di procacciarsi i capitali e i mezzi inderogabili per condurre le proprie imprese di violazione dei diritti dei popoli. Nondimeno, a posteriori del citato Trattato di Montreuil, per quel che concerne l’Inghilterra, si trattò di una situazione di stand-by, la quale approdò a un’apprezzabile normalizzazione nel 1308, grazie al regal imeneo tra Edoardo II d’Inghilterra e la figlia di Filippo IV, Isabella di Francia. Papa Bonifacio VIII aveva auspicato questo matrimonio già nel 1298. Tuttavia, illo tempore, non se ne fece nulla a cagione del veto di Edoardo I, il quale trapassò nel 1307 lasciando, di fatto, via libera alle nozze. Tra il Trattato di Montreuil (1299) e le nozze tra Edoardo II e Isabella di Francia (1308), contro la Francia, a questo punto prostrata e lacerata dal conflitto, si sollevarono in armi le Fiandre, le cui milizie urbane infersero a Filippo una storica e catastrofica débacle a Courtrai (Battaglia “Degli Speroni d’oro” “Guldensporenslag”-Piana di Groninga-Kortriyk-Fiandra, 11 luglio 1302). Molto presto, nell’umida bruma, nella fioca luce dell’alba incipiente, di quel 18 maggio 1302, i Fiamminghi, a Bruges, massacrarono 3.000 soldati francesi, innocenti vittime della crudele ambizione e della famelica cupidigia del loro stesso, scellerato Sovrano. Nondimeno, il Barbaro Capetingio (perché questa è la sua schiatta) cinicamente gioì di una sua vanitosa, superba, orgogliosa rivincita, guidando personalmente la cruentissima battaglia di Mons.en-Pucelle/Pélève (1304), a cui seguì il Trattato di Athis-sur-Orge (1305), in virtù del quale il Capetingio si annetté le città di Bèthune, Lilla e Douai. Furono barbaramente trucidati 80.000 Fiamminghi, che si immolarono stoicamente, sublimando il loro martirio per la libertà, l’autonomia, i diritti e l’onore della propria gente.

(*01) October 1301.
Sotto il Nobile Pierre Flotte (^) (caduto combattendo contro i Fiamminghi), Giurisperito, Guardasigilli e Gran Cancelliere di Filippo IV, …

(^) Pierre Flotte fece spesso riferimento al “legum doctor” Azzone da Bologna “1150-1225”, uno dei più grandi giuristi-glossatori medioevali, ovvero fece spesso riferimento al suo principio “rex in regno suo est imperator”, al fine di costituire il pilastro fondamentale per lo Stato moderno di Francia. Parimenti e per lo stesso motivo, fece riferimento anche al Domenicano, giurista e filosofo, Jean de Paris “Paris 1260-Bordeaux 1306”, il quale ricusava qualsiasi vassallaggio del Sovrano al potere temporale del Papa e prefigurava il conferimento al Sovrano di poteri anche in materia religiosa.

…lavorava un partito antiguelfo, con il quale collaborarono i fuoriusciti Colonna. Riesplosero i dissidi sulle immunità ecclesiastiche. Le difficoltà economiche della Francia furono l’incontrovertibile motivo della tenzone tra Filippo IV e Papa Bonifacio VIII (Bonifacio in questo anno fondò l’Università di Avignone), tenzone che si esacerbò quando Filippo fece arrestare il legato pontificio, il Vescovo di Senlis Pamiers, Bernard Saisset, tacciandolo di eresia e tradimento. Bonifacio VIII intervenne nelle questioni interne francesi, richiamando a Roma i vescovi gallicani, gli abati, i canonisti, i rappresentanti dei capitoli (ante promotionem nostram, 5 dicembre 1301). Nella bolla sincrona “Ausculta Fili…” stigmatizzò il rivale, avvertendolo: “…extra ecclesiam, nemo salvatur. Constituit Nos Deus super reges et regna”! Nell’entourage di Pierre Flotte esercitava Pierre Du Blois, Normanno, avvocato reale a Coutances, politologo, protopubblicista, autore di una « Summaria brevis et compendiosa doctrina felicis expeditionis guerrarum ac litium regni Francorum”, databile al 1300. Du Blois aveva in mente la “Monarchia Universale Francese”. Primo passo: Sua Maestà rimuova il Pontefice dagli Stati romani; rivolga i suoi interessi alla pingue Lombardia; alloghi Suo fratello Carlo di Valois (*03) sul trono costantinopolitano, facendogli impalmare l’ereditiera; …

(*03) Carlo di Valois, Conte di Valois dal 1286, Conte di Angiò e del Maine dal 1290, Conte di Alençon dal 1291 e Conte di Chartres dal 1293 fino alla sua morte. Fu inoltre Imperatore consorte titolare dell’Impero Romano d’Oriente dal 1301 al 1308 e Re titolare d’Aragona dal 1283 al 1295. Nel 1283 il tredicenne Carlo fu designato da Papa Martino IV a succedere sul trono di Aragona, a Pietro III d’Aragona, esautorato e colpito da scomunica quello stesso anno. Nel 1290 il matrimonio con Margherita d’Angiò gli permise di entrare in possesso delle Contee d’Angiò e del Maine, costituenti le doti della moglie. Carlo, dopo poco tempo, prese in moglie Caterina di Courtnay, figlia di Filippo I di Courtnay (a sua volta figlio dell’ultimo Imperatore Latino di Costantinopoli, Baldovino II), cercando una rapida corsia preferenziale verso il trono dell’Impero Romano d’Oriente, potendo Caterina rivendicarne i diritti. Durante la guerra che si stava aspramente combattendo in Sicilia, tra Aragonesi e Angioini, il Papa Bonifacio VIII si valse a sensibilizzare il Re di Francia, Filippo Il Bello che, nel 1301, inviò un esercito al comando del fratello Carlo di Valois. Carlo, giunto in Italia col suo esercito, intervenne a Firenze nel tentativo, almeno ufficialmente, di riportare la pace tra i Guelfi Bianchi e Neri. Egli favorì i Neri, mettendo al bando i Bianchi dalla città (tra questi Dante) nel 1301. Carlo, poi, novello, truculento Attila, bruciando, depredando e saccheggiando, proseguì la marcia verso la Sicilia con un palese piano di conquista, ma la malaria e la paura di un attacco da parte del Re Aragonese di Sicilia, Federico, lo fecero abdicare al suo intento. Carlo di Valois intervenne ancora in Italia, nel 1308, quando, alleato di Venezia, si trovò coinvolto nella lotta di successione del Marchesato di Ferrara, dopo la morte del Marchese Azzo VIII d’Este.

…soccorra il cugino Alfonso de la Cerda, mirando agli insediamenti spagnoli; guardi all’Ungheria e alla Germania (*04); …

(*04) Carlo di Valois, con il patrocinio del fratello Filippo Il Bello, nella loro nefanda e comune logica di espansione territoriale, di usurpazione e di conquista, tentò di raggiungere il Soglio Imperiale d’Asburgo, sia dopo l’assassinio di Alberto I (1308) sia dopo la morte di Arrigo VII (1313), ma non vi riuscì.

…all’interno acquisisca il monopolio reale sulle giurisdizioni “usurpate” dalla Chiesa. Basta non paventare anatemi. Si riporti la Casa di Lussemburgo sul trono imperiale (*05); …

(*05) Secondo questo piano il Regno di Arles doveva essere donato a Carlo di Valois, ma il Re di Napoli e Conte di Provenza, Roberto Il Saggio, fece, per fortuna, abortire il piano.

…si mantenga l’ordine nella Fiandra (*06).

(*06) Carlo di Valois morì nel 1325, anno in cui aveva guidato l’esercito per reprimere ferocemente nel sangue alcune sedizioni, proprio nell’irredentista Fiandra.

Alla bolla “Ausculta fili…” Filippo Il Bello replicò convocando (1302) gli Stati Generali (Clero, Nobiltà e Borghesia) nella chiesa di Notre-Dame di Parigi, dove fu letta la dichiarazione d’indipendenza della Francia e dei suoi Re al cospetto del potere spirituale. Anche il Clero francese votò a favore del Re. Per quel che concerne Bonifacio VIII, egli, con la notissima bolla “Unam Sanctam” del 1302, riaffermò l’assunto dell’egemonia della Chiesa sul potere civile. Filippo IV, scomunicato (1303), si oppose con efferata risolutezza e reagì postulando un processo per eresia e per infirmare l’elezione di Bonifacio VIII, ovvero inviando il suo machiavellico Longa Manus, il Cancelliere Guglielmo di Nogaret a Roma, a capo di alcuni soldati, per intimare al Pontefice, con la complicità del sordido Sciarra Colonna, di revocare la bolla pontificia “Super Petri Solio” che conteneva la scomunica. Il Papa fu sorpreso ad Anagni e, catturato coattivamente (*07) “Schiaffo di Anagni”, fu recluso nel profanato Palazzo di Anagni. I due sacrileghi aguzzini cercarono di costringerlo, oltre che ad abiurare la bolla, anche ad abdicare. L’episodio fu risolto da una sedizione popolare degli indignati e inferociti cittadini di Anagni, che liberarono Bonifacio VIII. …

(*07) Lo “Schiaffo di Anagni”, talvolta citato anche come “Oltraggio di Anagni”, è un episodio occorso nella cittadina laziale il 7 settembre 1303. Si tratta, invero, di uno schiaffo materialmente dato dall’empio Sciarra Colonna all’anziano e inerme Pontefice, Bonifacio VIII. L’oltraggio riempì di sdegno anche molti avversari della politica di Papa Bonifacio VIII, come Dante Alighieri, che considerò l’irriverenza come rivolta a Cristo stesso. L’episodio fu cantato da Dante nella sua Divina Commedia: Purgatorio, XX, 85-90:

“Perché men paia il mal futuro e ‘l fatto,
veggio in Alagna intrar lo fiordaliso,
e nel vicario suo Cristo esser catto.
Veggiolo un’altra volta esser deriso;
veggio rinovellar l’aceto e ‘l fele
e tra vivi ladroni esser inciso.”

Dante estrinsecò sempre una pesantissima valutazione sia sull’aspetto etico sia sul comportamento politico di Filippo IV, che, per immane dispregio, non menzionò mai nella Commedia con il suo nome, ma esclusivamente con l’interminabile teoria dei suoi “peccati”. Lo descrisse come “novo Pilato” (Pg. Xx, 91), poiché, come Pilato si lavò le mani della condanna di Cristo, nello stesso modo Filippo ebbe l’impertinenza di professarsi alieno dall’infamia di Anagni.

…Nel 1303, morto Bonifacio VIII, Filippo IV impose il proprio controllo sul Papato e non trovò resistenza nella persona del Papa successore, Benedetto XI, il quale cassò tutte le scomuniche del suo predecessore. Il 2 aprile 1305, nel castello di Vincennes, morì la Regina Giovanna I di Navarra, moglie di Filippo IV il Vescovo di Troyes, Guichard, venne ignobilmente tacciato di aver fatto morire la Regina con la stregoneria e il sortilegio. Morto anche Benedetto XI (viene lecito chiedersi se Bonifacio e Benedetto non siano stati “aiutati” a morire), Filippo IV si adoperò con gran magistero per far eleggere Papa un francese, l’Arcivescovo di Bordeaux, Bertrand de Got, Clemente V, che, nel 1309, assecondando l’istanza del Tiranno di Francia, trasferì la Santa Sede, ovvero la Curia, ad Avignone. Iniziò così la “Cattività di Babilonia”. Il Pontefice perse gran parte della sua autorità, divenendo uno strumento passivo della Francia, così da esser tratteggiato come “Cappellano del Re di Francia”! Dante Alighieri, nella sua Divina Commedia, in seno a una celebrazione nel Paradiso Terrestre pregna di allegorie, velatamente descrisse Filippo come “gigante” che “delinque” con la Curia, con patente antifona ai mutui privilegi, di diversa natura, formalizzati tra la Curia del Francese Clemente V e la Monarchia di Francia (Pg. XXXIII, 45). Filippo si valse a ottenere la revoca parziale della Bolla “Unam Sanctam” e l’istituzione di un processo post-mortem a Bonifacio VIII (mai portato a termine). Continuamente costretto a far fronte a ingenti spese, Filippo IV pensò di rifarsi alterando le monete (Maltote), perseguitando (1306 e 1311) gli Ebrei e i Lombardi (Mercanti Italiani) e inglobando illecitamente gran parte dei beni del ricchissimo Ordine dei Templari, di cui era fortemente debitore. Il potentissimo Ordine dei Templari, che aveva precedentemente respinto una domanda di ammissione all’Ordine presentata dal “postulante” Filippo IV Il Bello, fu oggetto di detrazioni, di accuse false e travisate, ovvero di accuse di empietà. Contro questi ultimi, particolarmente, Clemente V, “il Papa non Papa”, fu lo strumento di cui Filippo Il Bello si servì per porli sotto accusa nel 1312 e per poi destituirli dei loro patrimoni nel 1314. Alcuni dei Capi Templari, mendacemente tacciati di stregoneria e d’idolatria, furono mandati al patibolo, con il placet di Clemente V, in particolare il Gran Maestro Jacques de Molay, nel 1314. Nella Divina Commedia, Dante Alighieri adombrò Filippo IV come colui il quale introdusse “senza decreto, /nel tempio le cupide vele” (Pg. XX, 91-93), il quale, vale a dire, anticipando, dolosamente e motu proprio, il decreto apostolico del 1312, unico atto che potesse legalmente sancire (ferma restando la strumentalizzazione di potere) lo scioglimento dell’Ordine dei Templari, ordinò le sevizie e il massacro di un vastissimo numero di Cavalieri, ovvero l’arresto e la taccia di eresia financo del già citato Gran Maestro Jaques de Molay e la conseguente confisca-depredazione dei beni templari. Lo scandalo che coinvolse le nuore di Filippo IV, detto “de la tour de Nesle”, tacciate di adulterio, deflagrò nello stesso anno e incise segnatamente l’epilogo del turpe regno dello stesso Filippo. Gli amanti furono giustiziati. Filippo morì il 29 novembre 1314, nel corso di una battuta di caccia (*08) (secondo alcuni Storici, invece, a causa di una grave malattia sconosciuta) e fu seppellito nella Necropoli Reale della Basilica di Saint-Denis, dov’è conservato tutt’oggi un suo sarcofago. Gli succedette il figlio Luigi X di Francia.

(*08) In alcuni versi del “Pd. XIX, 118-120”, Dante riportò l’accusa contro Filippo IV di coniare falsa moneta, vale a dire di far coniare monete d’oro con un titolo più basso di quello dichiarato (mistificatoria istanza derivante dalle cospicue spese sostenute nella guerra contro le Fiandre). Nello stesso contesto Dante riportò la dinamica della morte di Filippo, caricato da “…colpo di cotenna”.
La “cotenna” è la pelle del cinghiale e, per estensione semantica, il cinghiale stesso. Filippo, tuttavia, non ebbe pace neanche da morto, poiché durante la Rivoluzione Francese, a evidenziare l’odio del suo stesso popolo, alcuni sconosciuti si introdussero in Saint Denis, tempio parigino, i quali si recarono alla tomba che racchiudeva il sarcofago del Sovrano, riesumarono i resti e li scaraventarono con disprezzo in una fossa, chiudendola poi con della calce.

“Lì si vedrà il duol che sovra Senna
induce, falseggiando la moneta,
quel che morrà di colpo di cotenna.”
*
La Francia durante il Regno di Filippo IV Il Bello

«Qui ventum seminabunt et turbinem metent »
Proverbio relazionato a Osea, Profeta Ebraico (Cap. VII v.7-Libro di Osea)
Osea intende rammentare a chi fa del male, che riceverà in cambio un male maggiore.

Filippo Il Bello regnò dal 1285 al 1314, ne consegue che l’anno centrale del suo regno fu il 1300. Come già enunciato, Filippo ereditò un Regno assai prospero, ma, appena salì al trono, la situazione generale iniziò a degenerare. Tale degenerazione subì una catalizzazione proprio a partire dal 1300. L’etica, durante questo periodo, fu caratterizzata da una degradazione globale. Degenerazione dei costumi, adulterio, frode e cattiveria erano molto estesi tra i ceti più elevati della società. Nei ceti meno abbienti, anzi popolari, era comunissimo trovare contraffattori, lestofanti, profittatori, clochard, nomadi, che durante il giorno popolavano le vie urbane, ma che, durante la notte, a Parigi, trovavano ostello nel nascente Astro della Corte dei Miracoli. “La Cour des Miracles” era il vetusto quartiere circoscritto da « Rue du Caire » e da « Rue Réaumur », oggi Secondo Arrondissement. I lestofanti e i clochard si impadronirono di questo quartiere e assunsero il vezzo di nominarne un Monarca. “La Cour” fu definita “des miracles”, poiché le fasulle invalidità e malattie dei clochard, qui, di notte, taumaturgicamente guarivano. In questo luogo di menzogna, di abietti tradimenti, di assassinii e di spergiuri di ogni sorta, ovvero in questo luogo dove l’uomo dimostrò di aver smarrito ogni sentimento morale, in questo luogo i gitani ammaliavano gli “indigeni” con prestigi e sortilegi, tentando, in questo modo, di procacciarsi qualcosa per campare e, sovente, depredando e turlupinando i malcapitati. La Corte dei Miracoli, un posto torvamente arcano, dove si rifugiavano le peggiori risme di manigoldi. La Corte dei Miracoli: un grande melodramma dove collidevano le forze del bene e del male. La pedicazione era divenuta costume diffuso e consolidato, parimenti al meretricio e all’infedeltà coniugale. Era divenuta una prassi ormai conclamata, ovvero una consuetudine, la realtà che Dignitari di Corte, uomini e/o donne, a qualsiasi livello, avessero amanti. I legami matrimoniali rientravano nella logica delle questioni di Stato e, per quanto riguarda l’amore e il sesso, ci si poteva indirizzare altrove. Le Donne di Corte non erano inferiori, in questo, ai loro consorti. Le Dame, invero, giungevano a farsi formalmente vanto delle loro tresche erotiche. Anche il Clero, in compagnia della Classe dei Mercanti, svolgeva un ruolo notevole in questo senso. Nel 1301 apparve una cometa, contemplata come foriera di terribili sventure. Nel 1313 un’immane carestia flagellò la Francia. Nel 1314, anno della soppressione dell’Ordine dei Templari e della morte sulla pira del loro Gran Maestro Jacques de Molay, esplosero gravissime pandemie di dissenteria. Le campagne si svuotarono delle loro popolazioni e si gremirono di arbusti, rovi, ovvero divennero selvaggiamente brulle e incolte. Altresì si disseminarono di carogne di animali morti. Le strade rurali, ancor più di quelle urbane, erano divenute insicure e vi regnava la violenza, ovvero gli istinti selvaggi vi lasciavano adito a rapina e sangue. Iniziò la peste, la quale raggiunse il parossismo nel 1320-1321. Di ciò vennero accusati gli Ebrei e i lebbrosi, molti dei quali arsi vivi. Il 1314 si concluse, 29 novembre, con la morte dell’abietto tiranno: Filippo IV Il Bello, proprio poco dopo la morte di Nogaret e di Clemente V. Il 1315 iniziò con piogge torrenziali e tempeste, talmente cospicue che i più pensarono a un imminente Diluvio Universale. La carestia si accentuò e si arrivò persino a casi di antropofagia. Nel 1316 morì il primo dei figli di Filippo IV, Luigi X, dopo soli due anni di regno. Il breve regno di Luigi X non fu particolarmente degno di nota. Questo esiguo periodo fu contrassegnato dall’incessante agone tra le fazioni nobili. Tutto lasciò e lascia pensare al verificarsi del vaticinio proferito sul rogo dal morente Gran Maestro Jacques de Molay, il quale profetizzò che poco dopo la sua morte sia Filippo sia i suoi discendenti lo avrebbero seguito nella tomba: ET FACTUM EST!
Come già enunciato, la Francia, in questo periodo, si era trasformata in una «Sodoma e Gomorra»! Volendo assumere come incontrovertibile postulato il motto latino “Caput imperare, non pedes!” (E’la testa a comandare, non i piedi), va ricercato in Filippo IV Il Bello il maggiore, se non l’unico responsabile di questa dolorosa e travagliata fase storica, nonché delle sue conseguenze. Secondo La Bibbia, Dio distrusse Sodoma e Gomorra a causa della corruzione dei costumi delle loro popolazioni (Genesi-19). “Sodoma e Gomorra” è divenuta un’espressione il cui significato allegorico è: “sodomia, omosessualità, corruzione, decadimento morale e umano.” Proprio ciò che occorse nella Francia “Filippina”. Fu proprio un Poeta Francese nel XIX secolo, Alfred de Vigny, nella poesia “La colère de Samson”, a darne una parziale definizione: “La Femme aura Gomorrhe/ et l’Homme aura Sodome” (La donna avrà Gomorra *lesbismo* e l’uomo avrà Sodoma *pedicazione*). Filippo IV Il Bello, verosimilmente, aveva commesso un grande errore: Si era rinchiuso nella sua “Turris Eburnea”, ovvero nel “Misoneismo”! Misoneismo intriso di vanità, presunzione, orgoglio, egoismo, a tal punto da non comprendere che stava sfidando e profanando “Il Sacro” e “L’Intangibile”, ovvero “Il Vicario di Cristo in Terra” ed “I Drudi del Santo Sepolcro in Terra Santa”!
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Templari

I Templari (alle origini vi fu un piccolo gruppo di Cavalieri in quel di Gerusalemme “1118”), furono Cavalieri dell’Ordine Religioso-Militare del Tempio, ufficialmente istituito da Ugo Di Payns nel 1119, a Gerusalemme, con l’obiettivo di presidiare i Luoghi Santi e di assicurare l’incolumità dei Fedeli Cristiani che si recavano in pellegrinaggio al Santo Sepolcro, conquistato dai Crociati. Come Ordine Religioso-Militare, i Templari fusero gli ideali di cavalleria e di spiritualità monastica. Il nome origina da Christi Militia, trasformato in Militia Templi o Fratres Militiate Templi, a posteriori del trasferimento nel Palazzo Reale di Gerusalemme, presso il Tempio di Salomone. I Membri dell’Ordine accettavano i voti di obbedienza, di castità e di povertà e venivano distinti in: Cavalieri, Sacerdoti-Cappellani, Scudieri-Inservienti. I Templari rispettavano una condotta di vita giusta una regola propria, redatta nel 1128 (in questo stesso anno l’Ordine fu riconosciuto da Onorio III) sul modello di quella dei Monaci Cistercensi, fatta ratificare da S. Bernardo di Clairvaux al Concilio di Troyes. A capo dell’Ordine, che nel 1139 fu sottoposto a diretto controllo papale, vi era un Gran Maestro, elettivo. L’insegna dei Templari era una Croce Rossa su veste bianca per i Cavalieri, su veste nera per gli altri. L’Ordine era organizzato in province (tre orientali e sette occidentali) e costituiva una sorta di Stato sovrano senza territorio, ma ricco di beni sparsi, destinato istituzionalmente a raccogliere e a veicolare in direzione della Terra Santa, uomini e denaro. I Templari, diretta espressione del movimento crociato, assiduamente e indefessamente impegnati nelle guerre contro i Musulmani, ebbero particolare rilievo nelle battaglie di Acri (1189), Gaza (1244), Al-Mansura (1250). Propagatisi in numero, molto rapidamente, sull’intero continente europeo, a motivo della loro potenza e della loro ricchezza e avendo un ruolo topico nelle transazioni commerciali con l’Oriente (si erano stabiliti a Cipro dopo la caduta di S. Giovanni d’Acri, ultimo baluardo crociato in Terrasanta) suscitarono ben presto l’invidia e la gelosia di molti nefandi e inetti Sovrani. L’avido Re di Francia, Filippo IV Il Bello, bramoso di depredare le ricchezze dei Templari, tacciandoli falsamente di blasfemia e altro, fece abolire l’Ordine dal suo abietto “Pupo”, il Papa Francese Clemente V (Concilio di Viennes, 1312). Filippo IV avocò a sé (il processo si protrasse dal 1307 al 1314) tutti i patrimoni dei Templari e martirizzò gli appartenenti all’Ordine con atroci sevizie e condanne alla pira. Tra questi ultimi il Gran Maestro, l’ultimo, Jacques de Molay (Molay 1243-Parigi 1314). Quando de Molay fu eletto, sull’Ordine aleggiava già, nefastamente, lo spettro della repressione e della soppressione. Filippo Il Bello, tramite Clemente V, lo chiamò a Parigi e lo fece proditoriamente arrestare con l’accusa d’idolatria. Con lo stratagemma di voler dibattere l’unificazione dell’Ordine del Tempio con quello dei Cavalieri Ospitalieri, disegno ricusato da ambo gli Ordini, Papa Clemente V invitò il Gran Maestro Templare, Jacques de Molay, dalla protetta dimora di Cipro, a Parigi. Venerdì 13 ottobre 1307, Filippo di Francia fece arrestare Jacques de Molay e tutto il suo entourage, che comprendeva il cerchio interno dell’Ordine Templare. Contestualmente, con un’operazione a sorpresa, allestita minuziosamente, Filippo si valse a imprigionare la maggior parte dei Templari residenti sul suolo francese. L’addebito, “…eccessivamente spaventoso da parafrasare. Delitti abominevoli, turpitudini aborrevoli, efferatezze blasfeme, etc.…”, è di “aver arrecato a Cristo vilipendi più turpi di quelli patiti sul Calvario”. La dichiarazione di eresia fu pronunciata dal Responsabile dell’Inquisizione di Francia, Guillaume de Paris, in ottemperanza all’ordine di Clemente V, il Papa eletto con il subdolo patrocinio di Filippo IV Capeto. I giudici ottennero le confessioni mediante tortura, confessioni che servirono Filippo IV per realizzare i propri progetti. Prima dell’esecuzione della condanna a morte, de Molay riuscì a protestare la sua innocenza al cospetto di tre cardinali, tuttavia Il Capeto fu irreversibile sulla sua decisione. Così l’ultimo Gran Maestro Templare morì sul rogo: era il 18 marzo 1314.
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“Omnia mea mecum porto”

Si tratta di un aforisma latino che Cicerone (Paradoxa 1,1,8) ascrive a uno dei “Sette Savi”, ovvero a Biante di Piene (VI Secolo A.C.). Letteralmente sta a significare: “Tutte le mie cose le porto con me” o, per estensione: “Ogni cosa che in me c’è di buono, la porto con me!” o, ancora: “La vera ricchezza è quella dello spirito”. L’aforisma è stato ascritto pure al dialettico megarico Stilpone (Maestro di Zenone di Cizio, con cospicua incidenza sull’indirizzo stoico), il quale, allorché Demetrio il Poliorcete, conquistando Megara, gli chiese se avesse dimenticato qualcosa, replicò: “Niente! Tutte le mie cose le ho con me!” (Seneca: Epistulae Morales, nove 18-19). E ancora, la paternità della frase viene attribuita anche a San Paolo il quale, ascrivendole una semantica aulicamente etica, enuncia che la santità si edifica sulle esperienze mondane che ciascuno reca seco. Allegoricamente, la semantica dell’aforisma può essere parafrasata in questo modo: “Le sole cose che invero ci appartengono sono: la nostra dignità e la nostra intelligenza.” Questi due valori sono verosimilmente tra i più topici di quelli che un essere umano possiede. Sono i valori inconfutabilmente e inderogabilmente necessari per condurre un’esistenza all’insegna della giustizia e dell’onestà, sia nei confronti del prossimo sia nei confronti di sé stessi. Perché parafrasare questo aforisma? Perché “Filippo IV Il Bello”, di “Bello” verosimilmente aveva soltanto il sembiante esteriore, ma, anagogicamente, era l’ipostasi della più esatta antitesi dell’inclito aforisma.
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Tratto dal libro edito: HUMANAE HISTORIAE – Aletti Editore


MAURO MONTACCHIESI

 

 

 

 

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