Il Dispari 20180514– Redazione culturale

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Il Dispari 20180514 – Redazione culturale

Il Dispari 20180514

Il Dispari 20180514

Editoriale

Così come voluto da Gaetano Di Meglio, Direttore di Il Dispari”, in questa pagina continuiamo la pubblicazione di tutti i testi proposti nell’antologia Penne Note Matite edita da Il Sextante di Mariapia Ciaghi.

Oggi possiamo conoscere Giulio Menichelli

Buona lettura!

Giulio Menichelli
Giovane violinista italiano, diplomato a soli sedici anni col massimo dei voti.
Ad otto anni si è esibito in pubblico con il “Moto perpetuo” di Paganini.
Primo concerto con l’orchestra ad undici anni al Teatro Traiano di Civitavecchia, dove eseguì il concerto in La m di Bach.
Sempre ad undici anni è entrato a far parte dell’orchestra giovanile di Uto Ughi.

A dodici anni si è esibito a Mosca e al Teatro Strehler di Milano.
Ha eseguito il suo primo recital a quattordici anni.
Ha frequentato i corsi del Maestro S. Accardo presso la Fondazione Stauffer.
Si è diplomato all’Accademia di S. Cecilia, sia per il violino e sia per la musica da camera sotto la guida dei Maestri Sonig Tchakerian e Carlo Fabiano.

Inoltre, ha conseguito il Master di specializzazione “Interpretation” all’HEMU di Sion col Maestro Sergiu Schwartz.

Ha vinto numerosi concorsi ricevendo, tra l’altro, il Premio Speciale Bach; il Premio Enescu donato dalla Fondazione omonima rumena (al concorso Postacchini dove fu l’unico italiano ad arrivare in finale); il Premio Bernabai per la migliore espressività musicale; Premio “Via Vittoria” come miglior diplomato dell’anno.

La sua carriera, fino ad ora, conta all’attivo più di 500 esibizioni in pubblico, come spalla e solista nelle più importanti orchestre giovanili tra le quali vanno citate la Giovane Orchestra dell’Opera, la Juny Orchestra Advanced dell’Accademia di Santa Cecilia e la Young Talents Orchestra “Ernst & Young”.

Recentemente, ha eseguito un concerto al Museo Etnografico del Mare di Ischia invitato dall’Associazione culturale “Da Ischia L’Arte – DILA”, ha registrato alcune decine di puntate video monografiche per la rubrica televisiva “Mancineide trasmessa da varie tv locali, ha collaborato con l’orchestra del Maggio Fiorentino, è stato ritenuto idoneo a far parte dell‘orchestra del Teatro Carlo Felice di Genova, ed è stato insignito della medaglia d’Oro presso l’Università La Sapienza di Roma come riconoscimento alla sua attività musicale che tiene alta la rappresentanza della musica italiana.

Attualmente si esibisce come solista in varie formazioni in tutta Italia.

Suona un violino francese del ‘700 con il quale ha vinto numerosi concorsi ricevendo molti altri prestigiosi riconoscimenti.

Angela Maria Tiberi intervista Milena Petrarca:

LA STORIA DEL GRANDE AMORE TRA ENRICO CARUSO E MIA ZIA BETTINA

Milena Petrarca è giunta a Napoli alla Villa Di Donato, in compagnia del giornalista Antonio D’Addio e del regista Ettore Abbate, per ricevere il Premio Enrico Caruso in occasione di una grande celebrazione del grande Caruso e di sua Zia Bettina: un amore oltre la morte.

Splendido successo per la prima edizione del Premio ”Enrico Caruso da San Giovanniello a New York”, promosso dall’artista Armando Jossa, pittore, scultore e ideatore della Paraideolia, al fine di rendere omaggio ad uno dei tenori più famosi del mondo, orgoglio della cultura partenopea, spesso invece ingiustamente trascurato proprio dai suoi conterranei.

L’evento, che ha ricevuto il patrocinio morale di Fulvio Frezza, consigliere comunale e vice presidente del consiglio comunale di Napoli, si è svolto sabato 24 Febbraio 2018 ed ha visto la partecipazione di centinaia di invitati, esponenti dell’intellighenzia cittadina ed appassionati intenditori di musica lirica.

Location prescelta, Villa Di Donato, esclusiva dimora aristocratica del ‘500, situata nel cuore di Napoli antica, a Sant’Eframo Vecchio.

Ad accogliere gli ospiti ha fatto gli onori di casa la dottoressa Patrizia de Mennato, proprietaria della villa prestigiosa, impeccabile nelle pubbliche relazioni che, con il suo abituale savoir-faire ha intrattenuto gli invitati negli ampi saloni affrescati con preziosità artistiche d’epoca remota.

Durante la serata, mirabilmente condotta dal giornalista professore Antonio D’Addio, sono stati consegnati ambiti riconoscimenti, in memoria del maestro Caruso, a personalità del mondo dell’arte e della cultura.

In particolare sono stati premiati Ettore Abate per il cinema, gaffer e caposquadra elettricisti; Gaetano De Rosa e Mario Thomas tenori del Teatro San Carlo che, per l’occasione, hanno inteso tributare un omaggio al pubblico presente interpretando magistralmente la celeberrima canzone “‘O sole mio”; Pasquale Della Monaco, pittore, ceramista, autore, creativo e regista; Enzo Di Domenico, cantautore, compositore e arrangiatore di chiara fama che ha regalato un mini concerto con i suoi maggiori successi; Annamaria Ghedina, giornalista, direttore de Lo Strillo, scrittrice, esperta di esoterismo.

A tutti i premiati è stata donata una Paraideaolia originale realizzata dal maestro Armando Jossa, una pergamena, un ritratto e un francobollo di Caruso.

Alla kermesse, coordinati da Stelvio Gambardella (tra gli organizzatori della kermesse), hanno partecipato i pittori Mario Citro, Vittorio Contrada, Bruno di Nola, Silvia Rea, che hanno realizzato una piccola mostra con dieci quadri dedicati al famoso tenore napoletano.

Sono intervenuti anche il musicista e cantante Enrico Mosiello, il poeta Enzo Ciotola, Gianni Sarto carusiano e collezionista, Antonio Landolfi pianista, Lello Reale proprietario della casa natale di Caruso, lo scrittore Salvatore de Matteis che ha esibito il testamento originale del tenore partenopeo, l’artista Milena Petrarca vincitrice del premio “Otto milioni” edizione 2017 per la sezione arti grafiche.

Sono felice, soddisfatto ed emozionato.” ha detto Armando Jossa, aggiungendo “Il bilancio della prima edizione del Premio Enrico Caruso, espressione di un mio ambizioso progetto è stato positivo. Da molti anni coltivavo il desiderio di fare un qualcosa di costruttivo e di serio nel segno di un eccelso artista della nostra città – ingiustamente dimenticato e trascurato ma, soprattutto, sono fiero di avere realizzato per la prima volta una manifestazione celebrativa dell’illustre maestro proprio nel suo quartiere natale per molti anni è stato puntualmente ignorato”.

Durante tale incontro celebrativo ho intervistato (in esclusiva nella mia qualifica di opinionista del quotidiano “Il Dispari” diretto da Gaetano Di Meglio), Milena Petrarca sulla storia d’amore, poco conosciuta dai media ma d’importanza internazionale, vissuta da sua zia Bettina ed Enrico Caruso.
L’artista ci ha raccontato questa meravigliosa storia d’amore davanti ad un folto pubblico che ha potuto ammirare il quadro che Milena Petrarca ha dipinto ispirandosi alla sua zia Bettina.
C’è da dire che tale dipinto si è classificato tra le opere finaliste del premio di Arti grafiche “Otto milioni” edizione 2018 (tuttora in fase di svolgimento), bandito dall’Associazione culturale “Da Ischia L’Arte – DILA”

D- Cara Milena ci racconti come si sono conosciuti Caruso e tua zia Bettina?

R- Qui esposto puoi vedere il mio dipinto “Omaggio a Caruso”, che rappresenta il ritratto della mia carissima Zia Bettina, fidanzatina del grande Caruso prima che egli partisse per New York…
È una rivisitazione dei miei sogni da bambina attraverso i suoi racconti e le emozioni che mi ha trasmesso.
Per me è una Magia ricordare i momenti bellissimi trascorsi con Lei -MERAVIGLIOSA FAVOLA– che ancora riecheggia nella mia mente.
Mia zia Elisabetta Panetty fu la sua fidanzatina, descritta da Lucio Dalla come la ragazza che ha “gli occhi verdi come il mare”.
Caruso cantava serenate bellissime sotto il suo balcone a Pozzuoli.
Non lo dimenticò mai… mi cantava sempre la serenata dedicata a Lei.
Carissima zia Bettina ti ho dipinta con il pennello magico DEL MIO CUORE —ti voglio bene sei sempre con me.
É lei la fanciulla che Lucio Dalla nomina nella sua canzone CARUSO

D- Possiamo avere altre notizie?

R- Una storia struggente.
Si sono amati da fanciulli, si sono conosciuti nella casa della mia bisnonna Maddalena Liberti Panetty, una famiglia prestigiosa molto benestante.Fondatrice dell’Ansaldo Armstrong ad Arco Felice – Pozzuoli.

Il mio bisnonno era un grande inventore, ingegnere meccanico dell’Ansaldo, ed anche mio nonno Alberto Panetty e tutti i miei zii, tra cui Tommaso Panetty, erano grandi inventori.

La mia famiglia ha aiutato economicamente molto la famiglia di Caruso sostenendolo, anche negli studi del bel canto.

In quei tempi si amavano attraverso le serenate che Caruso dedicava a mia zia Bettina.
Era un amore stupendo e lei fino alla morte gli è stata fedele.
Mia zia Bettina aveva sul comodino, vicino al suo letto, la foto di Caruso con la sua dedica amorosa.
Il dipinto che la ritrae l’ho presentato anche al premio internazionale di Arti grafiche “Otto milioni” 2018 organizzato dall’Associazione culturale “Da Ischia L’Arte” –DILA”.

D- Perché non ci racconti la tua presentazione dell’opera al Premio Caruso tenuto a Napoli?

R- Ora ti mostro anche le foto che ho fatto a Napoli al Premio Enrico Caruso, dove sono stata ospite d’onore il 24 Febbraio 2018, e il ritratto è di zia Bettina.

D- Chi è Armando Jossa?

R- Armando Jossa nasce a Napoli nell’agosto del 1951, a pochi passi dalla casa natale del grande tenore Enrico Caruso.
A soli quattro anni inizia a disegnare e pitturare incoraggiato dal suo vicino di casa, il maresciallo dell’aereonautica Roberto Falcone che intravede in lui le qualità di un artista.
A nove anni è ormai una piccola celebrità: dipinge ritratti di amici e parenti (considerevole il ritratto di suo nonno Armando) e tre opere di arte sacra tra cui “San Filippo Neri”, “San Pietro riceve le chiavi del Paradiso” e “l’Assunzione” esposte fino al 1965 nella Chiesa dei SS Giovanni e Paolo.
Questa è solo una piccola nota biografica di Armando Jossa.
Il suo talento non poteva sfuggire all’occhio attento e severo del suo insegnante il prof. Lalla che lo iscrisse al primo concorso nazionale interscolastico di disegno e pittura in occasione del primo centenario dell’Unità d’Italia.

D- Dove si è tenuto il Premio Enrico Caruso?

R- Villa Di Donato, Napoli, zona Sangiovaniello. Al premio Caruso ho presentato anche la bellissima Antologia PENNE, NOTE, MATITE di Bruno Mancini insieme al ritratto della mia adorata Zia Bettina.
C’era un pubblico infinito di napoletani, quasi quattrocento persone e moltissimi altri erano fuori… tutta piena la sala…
Carissimi amici voglio condividere con voi la mia grande Gioia.

D- Cara Milena condividiamo questa tua gioia e invitiamo tutti i lettori a partecipare con noi alla felicità delle meravigliose emozioni che ci doni con la tua Arte.

Angela Maria Tiberi


IL DISPARI 2015 – 2016

IL DISPARI 2017

IL DISPARI 2018

DILA

Premi Otto milioni

Il Dispari 20180507

Il Dispari 20180507 – Redazione culturale

Caterina Guttadauro La Brasca

LA STORIA SIAMO NOI

Era la solita ora, pomeriggio inoltrato e nelle vie assolate di un povero paese della Sicilia si ripeteva lo stesso rituale: tre bambini avevano più o meno finito di fare i compiti ed erano sull’uscio di casa, pronti a fare qualsiasi cosa fosse loro chiesto pur di avere poi il permesso per andare a giocare a pallone, nella piazzetta antistante la chiesa.

Le mamme brontolavano ma, erano maschietti e lo sport li aiutava a scaricare la loro vivacità e a farsi degli amici.

Cosi Erasmo, Giuseppe e Gaetano si riunivano, strada facendo, e giù a rotta di collo, lungo la via acciottolata, con il rischio di percorrerla ruzzolando, se uno dei tre avesse perso il passo.

La verità che raccontavano era tale solo in parte:

si recavano sì nella piazzetta ma per andare al “Circolo dei Reduci”.

Era una casa a piano terra, malandata, dove seduti su delle sedie poco stabili c’erano i vecchi del paese, quelli che erano parte della sua storia, che erano andati in guerra ed avevano avuto la fortuna di tornare.
Tre di loro portavano gli stessi nomi di quei ragazzi dei quali erano i nonni.

Un’insegna di cartone, attaccata alla porta con lo spago e che regolarmente cadeva quando c’era vento, spiegava a chi aveva la fortuna di sapere leggere, che coloro che si riunivano in quella casa erano uniti da un passato di eroismo e di battaglie che, tenuti in vita dalle parole, erano diventati ricordi.

Tutti e tre avevano servito la loro Patria, ognuno in modo diverso dall’altro ma con lo stesso
patriottismo e lo stesso coraggio.

Quasi tutti avevano un bastone a cui si appoggiavano per alzarsi, le ferite di guerra parlavano ancora e l’intensità del dolore non permetteva loro di dimenticare.

In quella misera stanza, ogni giorno, si consumava la liturgia del racconto ed erano diventati così bravi che se uno si fermava perché, quasi soffocato dal fumo del sigaro, ripetutamente aspirato e spento, l’altro continuava anche per lui.

Le donne non capivano questa necessità di parlare sempre del passato, soprattutto ai ragazzi che potevano rimanere turbati.

Ma i vecchi erano testardi e sapevano che credere in qualcosa significava lottare perché non sia dimenticata.

Così i ragazzi si accovacciavano ai loro piedi e, in religioso silenzio, ascoltavano quello che tre giovani soldati avevano fatto nella prima guerra mondiale per farli nascere in una terra più libera.
Erasmo era stato ben cinque anni in guerra, spesi in parte a combattere e in parte prigioniero degli Austro Ungarici che gli avevano rubato l’infanzia dei suoi figli.

Giuseppe era il più malridotto dei tre:

arruolato fresco di laurea, fu mandato in prima linea, al comando di un drappello di uomini coraggiosi.

Era il primo ad andare all’assalto e l’ultimo a rientrare.
Già, perché allora si combatteva così, corpo a corpo ed a fermarti erano solo le bombe o la morte. Tutte le volte che rientravano da un’operazione, Giuseppe contava i suoi uomini e, se qualcuno mancava all’appello, si tornava indietro a cercarlo, vivo o morto.

Durante una ritirata, ormai sopraffatti dalla superiorità numerica del nemico, fu individuato e, mentre correva, per sfuggire alle bombe che piovevano dall’alto ed al fuoco di una mitragliatrice che si faceva strada tra gli alberi, saltò dentro un pozzo dove riuscì, fortunatamente, a trovare un appiglio: era un arbusto dalle profonde radici che lo sosteneva mentre le sue gambe, ferite, penzolavano inerti dentro l’acqua di un inverno ghiacciato.

Quella notte – Giuseppe pensò – che fosse l’ultima e proprio mentre lasciava andare le mani, ormai ferite per la lunga presa, prima di perdere i sensi sentì una voce che gridava: «Venite, qui c’è il Capitano.»
Lo salvarono ma le sue gambe rimasero per sempre indolenzite.

Gaetano era il più giovane dei tre

e il suo amor patrio era pari alla sua voglia di vivere e divertirsi. Era sbadato e fu grato a Dio quando fu assegnato alla foresteria, lontano dal fronte dove sarebbe andato incontro a morte sicura.
Il minimo rumore di combattimento lo disorientava al punto da fargli mollare qualunque comando stesse eseguendo per rifugiarsi in qualche posto più sicuro.

Quando arrivò alla conclusione che nessuna guerra poteva essere la sua, decise di accorciare i tempi e si cacciò uno spicchio d’aglio dentro un orecchio.

La paura aveva vinto sul coraggio, ma, spese notti intere a scrivere messaggi da recapitare ai familiari per quei feriti che non sarebbero più tornati.

Si procurò un’otite purulenta ed il Comando fu costretto a rimpatriarlo perché il timpano si danneggiò a tal punto da rimetterci l’udito.

Le tasche della sua divisa, sopravvissuta anch’essa alla guerra, erano piene di bigliettini e, laddove fu possibile, arrivarono a destinazione.

Tutti e tre erano partiti perché quando la Patria chiama il dovere impone di andare, ma in guerra ti misuri con te stesso oltre che con il nemico e, quando torni, ti accorgi che le macerie non sono solo fuori ma anche dentro di te…

Caterina Guttadauro La Brasca

 

Angela Maria Tiberi recensisce “Il colore degli aquiloni”

scritto da Francesco Terrone

Francesco Terrone è un noto personaggio internazionale della cultura italiana, profondamente umano, che colpisce il cuore del lettore dal primo verso e grida al mondo di smettere di odiarsi facendo le guerre ed opprimendo gli innocenti come i bambini, e sente la necessità che l’amore va vissuto quotidianamente per eliminare la violenza esistente fra le mura domestiche.
In questo testo c’è la declamazione dell’amore e le sue varie sfaccettature

“Le stagioni dell’amore”

Le stagioni dell’amore sono così,
ognuna di esse ha i propri colori,
i propri sapori,
le proprie emozioni,
così ogni amore
ha l’amore
che gli spetta
il cuore che
gli tocca.

Immenso è l’amore verso la vita, e il legame che lo lega alla sua amata traspare nella poesia

“La vita è bella”

Aggrappati a me
amore mio,
so del tuo tormento,
del tuo dolore,
ma la vita
è bella
vivila…
È bello ascoltare
il canto degli uccelli,
sentire lo scroscio
delle acque dei ruscelli,
sentire il profumo
dei fiori,
sentire il calore
del mio amore…
Aggrappati a me
raggio di sole
che illumini
e riscaldi
il mio cammino…
Solo attraverso
i tuoi occhi
posso vedere
i colori della mia vita…
Aggrappati a me
e fammi vivere.
Vivi, amore mio…

Profondamente sentita da me, perché delusa d’amori non ricambiati ma attaccata alla vita e alla poesia che mi guarisce dal mio mal di vivere e credere sempre nella bellezza dell’esistenza anche quando l’amore non viene corrisposto da chi si ama, è questa poesia profondamente veritiera. Inutilmente…

Quand’ero
ragazzo
pensavo che le lacrime
cadendo dagli occhi
e bagnando
un fiore
potevano contribuire
a farlo crescere.
Oggi penso
che le/mie lacrime
cadendo
dagli occhi
possono
solamente
farlo seccare…

Meditazione, quando l’amore non è corrisposto non occorre piangere ma basta l’indifferenza per dimenticare.
Amando la propria vita e la propria esistenza e perdonando il proprio simile c’è pace in se stessi ed armonia intorno a sé.

“Everest”

C’è una montagna
sulla cui cima
nessun uccello vola,
nessun ‘aquila
fa il proprio nido…,
quella cima
è la cima
del mio cuore
la cima della mia solitudine…
nessun amore
vi fiorisce,
nessun amore
può mai morirvi…

I sostenitori dei suoi testi esprimono concetti molti profondi e ci invitano a riflettere sulla poetica del nostro amato Francesco Terrone e, sinteticamente,

Eugenio Santelli dichiara:

“…artista raffinato,poeta dai contenuti forti ma essenziali per le tematiche affrontate,dal linguaggio ricco, attinente, preciso, evoluto, e che ha cultura e passione, idee ed emozioni che sanno imprimere una svolta al nostro mondo, che ne ha bisogno,che ne ha bisogno,che ne ha un terribile bisogno,sprigionando in tutti coloro che lo leggono un senso di pace, di pace vera, interiore ed esteriore.”

Bellissima la conclusione del testo dopo la profonda lettura del suo meraviglioso curriculum
Condivido il suo pensiero e la mia tristezza passa leggendo le sue poesie.
Vista l’attività che svolge come ingegnere e imprenditore, la poesia potrebbe sembrare un hobby ed invece essa è per lui una ragione di vita.

Angela Maria Tiberi


DILA

 

Premi Otto milioni

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DILA

Premi Otto milioni

Bruno Mancini

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